Venerdì sera al Teatro Franco Parenti. Code alla biglietteria per gli spettacoli che vanno in scena nelle tre sale, l’accogliente Foyer gremito, profumi e aromi del Café Rouge che lavora a pieno ritmo. Si sentono le vibrazioni di una piccola comunità dentro la città. Nella Sala Tre si apprestano sedili improvvisati con cuscini, compaiono altre sedie: anche questa sera sono accorsi in molti ad applaudire la bella Sonia Bergamasco (Premio Duse 2014), che dopo il successo dello scorso anno ripropone la sua lettura de Il Ballo, fortunato racconto o romanzo breve (1928) di Irène Némirovsky, scrittrice russa trapiantata a Parigi e morta ad Auschwitz.
I Kampf, nuovi arricchiti, decidono di dare un ricevimento nella nuova casa di Parigi e invitare i personaggi più in vista della borghesia cittadina. La signora Kampf considera questa festa il proprio debutto nella buona società: tutto dovrà essere perfetto e non vuole intralci, perciò il ballo sarà vietato alla figlia quattordicenne Antoinette. La questione si risolve in modo brusco e autoritario: la «mocciosa» scriverà in bella grafia gli inviti agli ospiti, ma dovrà andare a letto presto. Così il ballo, che nell’immaginario di Antoinette è un insieme confuso di musica, profumi, fruscio di abiti meravigliosi e sussurri d’amore, resta per lei un sogno proibito, di felicità mutilata. Rifiutando questo ruolo da Cenerentola, in un impeto di rabbia, la ragazza si prende la sua feroce vendetta: nessun invito (salvo uno) arriverà a destinazione e quindi il ballo della madre andrà deserto, cosa che la donna interpreterà come rifiuto e disprezzo irrisorio da parte dell’altolocata società snob. Il racconto è ricco di dialoghi e si presta alla resa teatrale, soprattutto nella seconda parte, in cui la scena dell’attesa inutile e snervante degli invitati è vista «come fosse un teatro» dagli occhi di Antoinette, sgusciata fuori dalla sua camera. La Némirovsky però attua un continuo slittamento dei punti di vista. La mirabile lettura della Bergamasco (unica attrice in scena) riesce a mantenere l’impostazione di una narrazione pluriprospettica, attraverso due elementi: la scenografia e l’esercizio dei registri vocali.
Più che alla stanza di un’adolescente, una “casa di bambola” pronta a essere distrutta, l’ambiente gioca sull’atmosfera plumbea del nero e del riflesso. Al centro, una dormeuse, alle pareti sono appoggiati specchi di varie forme e dimensioni. All’inizio sono coperti da velami di cellophane e poi mano a mano si rivelano. Un salone alla Versailles che riproduce le manie di vanità e grandezza un po’ kitsch della famiglia dei parvenus? Forse. E inoltre, una camera oscura dove si elaborano immagini, e gli attrezzi non sono gli acidi per le pellicole, ma questa partitura prismatica di rimandi speculari. Infatti, a seconda della posizione, nelle cornici vediamo riflessa la protagonista: i suoi movimenti si raddoppiano sulle superfici, che intrappolano anche la nostra immagine, come pure quella degli altri specchi, in un labirinto di visioni sovrapposte. Il tema conduttore è quello della molteplicità. Così il cellophane può avere la grazia di un velo che imita la stola di un vestito elegante, ma può anche diventare una seconda pelle, trappola soffocante da lacerare.
Multipli soprattutto sono i punti di vista sulla vicenda, resi dalla Bergamasco attraverso una variegata polifonia. E così i gridolini vacui definiscono il carattere debole della tata inglese Miss Betty, il falsetto nasale accompagnato dal tic nervoso del nodo alla cravatta rappresenta il padrone di casa Alfred, la voce acidula e l’isterica agitazione delle mani “fanno” la vecchia cugina Isabelle. Si tratta però di figurine, fissate solo in sonorità e gesti stereotipati, per lasciare spazio alle vere protagoniste: la madre Rosine e la figlia Antoinette. Alcuni scarni dettagli caratterizzano le due figure: la voce della madre si attesta su un registro stonato e quasi caricaturale, pomposa e reboante, secca nell’impartire comandi, vibrante di emozione solo nella descrizione sognante del ballo. Inoltre, quando “diventa” la madre, l’attrice indossa una scarpa elegante dal tacco alto, conferendo al personaggio un’andatura zoppa, chiaro segnale di una natura e di un’aspirazione oscillante (vuole essere elegante ma è volgare e brutale), destinata alla caduta. La voce di Antoinette invece ha il timbro argentino della giovinezza, con slanci di passione e moti nervosi, e lo sfondo sonoro ai suoi interventi e pensieri è spesso reso dal ticchettio ossessivo di un orologio, quasi fosse il meccanismo di una bomba ad orologeria innescato per la prevedibile esplosione finale.
La frase finale del racconto definisce il momento cruciale e dà il senso all’intera atmosfera: «Era l’attimo, l’istante impercettibile in cui si incrociavano sul cammino della vita: l’una stava per spiccare il volo, mentre l’altra si avviava a sprofondare nell’ombra. Ma non lo sapevano». Ci troviamo a un punto di svolta per la vita di entrambe. Madre e figlia, diverse, eppure così uguali: ognuna chiusa nella sua gabbia di egoismo e concentrata a sul proprio ego – e in questo senso la trovata del mondo-specchio è assai riuscita.
L’ossessione dell’immagine è un tema ricorrente: la madre cerca nel ballo il riscatto sociale, l’occasione per mostrare all’alta società la prosperità economica e infatti prepara la festa in ogni dettaglio, curando la forma, cioè la superficie della maschera sociale. La figlia vuole spezzare l’immagine che gli altri hanno di lei come di una bambina, e cerca l’emancipazione in un atto – anch’esso infantile – di rivalsa: un semplice dispetto, che però la penna della Némirovsky trasforma nella tragica contrapposizione fra generazioni: Antoinette si sente «ricca di tutto il suo avvenire, di tutte le sue giovani forze intatte» solo quando riesce a schiacciare la madre (quasi un suo alter ego) nella disperazione. Eppure non sentiamo il sollievo per una piccola donna che cresce e si libera dalle catene della tirannia materna: ci percorre il dubbio che tutto quel racconto precedente, con le voci dissonanti e deformate, sia solo la rifrazione soggettiva del mondo attraverso gli occhi di Antoinette. E quando la Bergamasco si specchia per l’ultima volta nell’ovale riflettente che giace a terra, che è un po’ come la pozza della coscienza e lo stagno di Narciso, il suo viso si atteggia in un agghiacciante sorriso, una maschera trionfante e autocompiaciuta della propria perversione. Grande prova d’attrice.
Il Ballo
liberamente ispirato al racconto di Irène Némirovsky
Racconto di scena ideato e interpretato da Sonia Bergamasco
Teatro Franco Parenti, Milano
9 febbraio-6 marzo 2016
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