Il 3 febbraio 2016 è uscito Shadows in the night di Bob Dylan, un omaggio del cantautore alle canzoni del Great American Songbook, alcune delle quali interpretate da Frank Sinatra. Nel comunicato stampa in cui ha annunciato l’uscita del suo nuovo lavoro ha anche affermato il suo orgoglio per aver realizzato il disco che voleva fare da tempo:
«per me è stato davvero un privilegio poter realizzare questo disco. Ho sempre voluto fare qualcosa del genere, ma non ho mai avuto abbastanza coraggio per prendere dei brani suonati da 30 musicisti e arrangiarli per una band formata da cinque persone. Credo che la chiave di tutte queste performance stia proprio in questo processo. Conosciamo benissimo queste canzoni, sono state tutte realizzate interamente dal vivo, magari con una o due prove. Ma non ci sono overdubbing né aggiunte alle parti vocali, niente cuffie, nessuna traccia separata e quasi tutti i messaggi sono nati in base a come abbiamo registrato le canzoni».
Bob Dylan su Shadows in the night
In molti ritengono che Bob Dylan, dopo i suoi album poco convincenti degli anni Ottanta, stia ancora vivendo il suo “rinascimento” iniziato nel 1997 con Time out Mind, dopo cui ogni suo disco è entrato nella classifica dei dieci dischi più venduti degli Stati Uniti. Sarebbe banale, però, ridurre Shadows in the night a semplici cover, dal momento che sono il frutto di un lungo processo creativo di riscoperta di alcuni dei più famosi brani di Sinatra, come afferma Dylan stesso:
Non credo di aver registrato delle cover. Credo che di cover di pezzi di Sinatra ce ne siano stati abbastanza. Quello che abbiamo fatto, la mia band ed io, è stato piuttosto quello di riscoprirle. Le abbiamo disseppellite e riportate alla luce del sole.
Dylan, in quella che è la sua prova migliore dell’ultimo decennio, si fa trasportare dalle melodie in un’atmosfera malinconica con la sua voce non più da «carta vetrata», bensì più leggera. Inoltre, l’intensità dell’artista e il suo modo di pronunciare i versi delle canzoni, indugiando sulle parole e sulle note attraverso degli accenni ritmici delicati, richiamano la compostezza e la chiarezza tipiche della fine degli anni Sessanta.
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I’m a fool to want you, di certo l’acmé del disco, viene interpretata in maniera struggente: un’intera esistenza, infatti, sembra posarsi sulla bocca e sul respiro di un uomo in grado di conferire nuova luce a ogni singola parola. Viene registrata con i cantanti di Ray Charles nel 1951, periodo in cui Sinatra lascia la prima moglie Nancy per sposare Ava Gardner: un’unione distruttiva che provoca molto dolore. In attesa del divorzio il cantante trascina il suo stress emotivo nello studio, registrando il singolo in una sola take: lo stesso critico musicale Will Friedwald ha affermato che Sinatra era talmente sopraffatto dal dolore da rintanarsi nello studio di registrazione in lacrime. Il tono dell’arrangiamento di Alex Stordhal risulta drammatico e quasi tchaikovskiano grazie alla presenza degli archi e dei cori delle Ray Charles Singers. Il vigore e l’eleganza che la voce di Sinatra emana lasciano intravedere un domani pieno di speranza, vita e nuovi amori. Grazie al tocco dylaniano, questi sentimenti paiono definitivi e irrimediabili, poiché quando canta «quante volte ho detto che ti avrei lasciata, quante volte me ne sono andato ma ogni volta tornava il desiderio di te», il tono è quello di un uomo che ormai si è arreso. Molti artisti prima di Dylan, tra cui Chet Baker, Elvis Costello e Billie Holiday, hanno rivisitato questo brano, ma il cantautore rivendica la sua vicinanza ad esso: egli si riconosce in ogni parola che è stata scritta e gli è così familiare che è come se fosse sgorgata dalla sua stessa penna. Inoltre, anche dopo cinquant’anni non smette di emozionare grazie alla sua eternità lirica e musicale.
Nel 1942, durante la sua prima session da solista, Sinatra registra The night we called it a day. La versione di Dylan, però, è molto lontana dalla precedente: priva del sentimentalismo affettato che primeggia nella canzone “madre”, è molto più vicina alla seconda versione che Sinatra incide nel 1957 per il 33 giri Where are you?. Dopo la storia tormentata con Ava Gardner l’esperienza, come ha affermato l’arrangiatore d’orchestra Nelson Riddle, ha insegnato a Frank Sinatra come suonare una torch song.
Stay with me è una delle meno note dell’intero repertorio di Sinatra ma non per questo meno significativa: è, infatti, nel 1963 la colonna sonora de Il cardinale, pellicola diretta da Otto Preminger e interpretata da Tom Tyron e Romy Schneider che narra l’ascesa di un prete di Boston nella gerarchia ecclesiastica durante la Seconda Guerra Mondiale. Se la versione di Sinatra si può considerare esageratamente hollywoodiana e con un’orchestra che distrae il pubblico dal tono spirituale del testo, quella di Dylan, grazie ad un pedal steel dolce-amaro, si trasforma in una preghiera sommessa e profonda, la confessione di un peccatore che chiede perdono al suo dio e lo prega di non abbandonarlo.
Un altro brano che non ha avuto un passato glorioso è Autumn leaves, adattamento in inglese di Les feuilles mortes commissionato da un discografico della Mercer a Johnny Mercer, il quale varia il significato del testo facendolo diventare il nido dei ricordi d’amore dei due amanti. La canzone è poi inclusa nell’album Where are you? del 1957, diversamente dall’originale, pensata come musica del balletto Rendez-vous (1945): il libretto è affidato all’abilità del poeta Jacques Prévert, mentre le musiche a Joseph Kosma. La melodia viene recuperata per il film del 1946 Mentre Parigi dorme e vivificata dalla voce di Yves Montand. Nella versione delicata di Bob Dylan le linee di chitarra tracciano con precisione e sottigliezza i sentimenti del protagonista.
Why try to change me now viene registrata due volte da Sinatra: la prima volta nel 1952, quando interrompe la sua collaborazione con la Columbia Records, e in seguito sette anni dopo, alterando però lievemente la melodia. La canzone si apre con un suono flautato e il tono è quello di un auto-scrutinio. Dylan, invece, pronuncia la parola «conventional», contenuta all’interno della terza strofa «Why can’t I be more conventional?», marcandola con il suo tono nasale generando una piccola disarmonia in un album in cui invece canta in maniera diretta e tradizionale.
Some enchanted evening appare prima nella versione del 1949 per il musical South Pacific nel momento in cui il protagonista Emile si rende conto del suo amore per Nellie, come monito a cogliere l’attimo, o si finirà per rimpiangerlo e trascorrere il resto della propria vita in solitudine, persi nei propri sogni. Il pezzo del 1957 di Sinatra è arrangiato in modo più appariscente, mentre Dylan ribalta la prospettiva aggiungendo un’atmosfera cupa e trasformandola in una canzone di rimpianto: se la versione di Sinatra esprime, infatti, la vitalità dell’amante che sta giocando la sua carta prima che sia troppo tardi, quella di Dylan esprime la mestizia di chi non ci ha provato.
Sinatra nel 1945 incise Fool moon and empty arms ispirandosi al movimento finale del Concerto per pianoforte no.2 di Sergej Rachmaninov per il progetto Symphonic Sinatra, che però non vedrà mai la luce. Dylan scarnifica il brano ingessato e lo priva del fraseggio leggero tipico degli anni seguenti a Sinatra, fino a renderlo romantico e lunare.
Lo stacco di Dylan per Where are you? dalla versione più soffice di Sinatra, arrangiata da Gordon Jenkins, è piuttosto netto: il cantante la priva dell’arrangiamento sinuoso e la interpreta con la sua voce screziata dall’età, assai lontana da quella profonda di Sinatra che raggiunge quella di un baritono caldo e profondo, fino a somigliare al lamento di un uomo che si trova dinnanzi alla verità dell’assenza del lieto fine.
What’ll I do, datata 1923 e composta da Irving Berlin, è il soliloquio di un amante abbandonato. Dylan la rende una breve parabola sui sogni che non si sono realizzati: l’arrangiamento scarno evidenzia lo stacco del bridge, che risulta perciò un respiro affannoso che precede la liberazione del terzo verso.
That lucky old sun, una canzone sull’indifferenza del sole verso le fatiche degli uomini, è una chiusa amara ma solenne per l’album di Bob Dylan, il finale perfetto per una serie di canzoni piene di virtù e adatte ai tempi correnti dove le vite delle persone sono intrappolate e guidate da vizi quali l’egoismo, l’ambizione e l’avidità.
Dunque, non si può non definire questo album un sincero atto d’amore, in primis verso Sinatra – o, come Dylan l’ha definito, «La montagna» – nella cui voce, come ha raccontato nelle pagine della sua autobiografia, sentiva «tutto: la morte, Dio, l’universo, tutto»; in secondo luogo verso delle canzoni che sono state rese universali dal cuore dell’uomo: per meglio comprendere questi brani bisogna aver vissuto la passione che consuma tutto ciò con cui entra in contatto, l’attesa, il senso del peccato, la stanchezza e, soprattutto, il bisogno di qualcuno cui tendere la mano. Solo con l’esperienza e l’amore per questi classici della canzone americana si può realizzare un lavoro denso, ponderato e vissuto come ha fatto Bob Dylan, il quale riporta le canzoni alla loro essenza originaria ricercando il loro volto più celato e costruendo un ponte tra la musica americana del passato e quella odierna.
Nicole Erbetti
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