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Perché c’è tensione tra Matteo Renzi e l’Europa?

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Matteo Renzi. AFP PHOTO / ANDREAS SOLARO (Photo credit should read ANDREAS SOLARO/AFP/Getty Images)
Matteo Renzi
AFP PHOTO / ANDREAS SOLARO (Photo credit should read ANDREAS SOLARO/AFP/Getty Images)

Che ci sia una disputa in corso tra il nostro primo ministro e le istituzioni europee è ormai un fatto assodato. Da dove arrivi questo improvviso ostinarsi di Matteo Renzi e dove sia indirizzato è invece meno evidente.

Quel che è certo è che una data di inizio la possiamo trovare: siamo a metà dicembre e scoppia una prima polemica tra Italia e Germania su una questione apparentemente secondaria. Il premier italiano denuncia apertamente il doppiogiochismo tedesco nella gestione della crisi ucraina. Da un lato, la Germania infatti avrebbe spinto per un intervento immediato dell’Europa per sanzionare la Russia, con conseguenze dirette sull’import dei paese europei; d’altra parte però ha continuato a mantenere un rapporto diretto col Cremlino, fino ad arrivare ad un accordo per il raddoppio del flusso di gas che arriva a Berlino attraverso il canale preferenziale del North Stream (gasdotto che, passando dal Mar Baltico, crea una connessione diretta tra Mosca e la Germania, evitando così di passare per l’Ucraina).

In simile contesto l’Italia risulta essere doppiamente svantaggiata. Da una parte, essendo il secondo partner commerciale della Russia in Europa, ha visto diminuire il suo export verso la Federazione Russa, nel solo 2014, di circa 1,2 miliardi di euro, cifra non certo irrisoria per la nostra economia. D’altra parte l’Italia deve assistere inerme alle trattative per un potenziamento del North Stream, dopo essersi vista negare l’appoggio europeo per la costruzione del South Stream (gasdotto che, passando per Grecia e Turchia, avrebbe dovuto arrivare direttamente in Sud Italia), con conseguenti perdite economiche dirette e indirette (Eni ha perso circa 29 miliardi di investimenti).

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Ora, sembrano assolutamente chiare le motivazioni dei dissidi tra Roma e Berlino. La domanda che sorge però spontanea è se la partita si sia giocata solo tra Italia e Germania o se invece ad essere coinvolti ci fossero altri paesi europei. Ed è qui che sta il nocciolo della questione: ad avere interessi nel potenziamento del North Stream, oltre alla Germania, vi sono anche la ditta anglo-olandese Shell e la francese Engie. D’altra parte, ad osteggiare questo progetto vi sono i paesi orientali, come Polonia e Ungheria, oltre alla Grecia. Come risulta evidente, l’ago della bilancia non pende assolutamente verso la capitale italiana.

Eppure Matteo Renzi al summit europeo dell’11 dicembre rincara la dose e rinfaccia direttamente alla collega tedesca il fatto di non starsi assolutamente sprecando per aiutare l’Eurozona a risollevarsi. Più specificatamente, Renzi accusa, sostenuto da Grecia e Portogallo, la cancelliera Angela Merkel di essersi prima esposta a favore e poi aver negato la possibilità di creare un fondo interbancario europeo di tutela dei depositi. Non solo, ma Renzi dichiara apertamente che l’ostinarsi tedesco verso politiche di austerità sia stata la causa principale del trionfo dell’estrema destra di Le Pen al primo turno delle regionali in Francia.

Ora, a dicembre l’atteggiamento del Premier italiano veniva interpretato in diversi modi. Secondo alcuni, si trattava di semplici dissidi personali con la Cancelliera tedesca. Se questo fosse stato vero allora avrebbero dovuto essere aggiunti anche i dissidi con il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, il presidente del parlamento europeo, Martin Schulz, e il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Junker. Ora l’idea che l’ex sindaco di Firenze stesse combattendo una battaglia solo sulla base di motivazioni personali, sembra essere alquanto implausibile.

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Ben più convincente invece è la spiegazione che Sara Stefanini ipotizzava il 16 dicembre in un articolo per Politico per cui il braccio di ferro di Renzi con la Germania e con le istituzioni europee, nei mesi precedenti, fosse un modo per preparare il terreno per la richiesta di un allentamento del Patto di Stabilità e Crescita.

E così è stato. A Gennaio infatti Matteo Renzi attacca apertamente il presidente della Commissione Junker, al quale rimprovera di non rispettare il mandato con cui era stato eletto. In un intervista sull’Unità del 15 gennaio 2016, Gianni Pittella, capogruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento Europeo, criticando i passi indietro sulla flessibilità di bilancio da parte della Commissione, dichiara apertamente: «la fiducia non sarà eterna se non vedremo un cambio di passo, una svolta soprattutto sul fronte economico e sociale». Parole chiare e dirette. L’Italia, dopo aver sostenuto i sacrifici e rispettato le regole, adesso vuole un cambio di rotta. Subito dopo queste dichiarazioni, la contro risposta del presidente della Commissione non si è fatta attendere e con essa quella degli altri tecnocrati europei, tra cui il presidente olandese dell’Eurogruppo Dijsselbloem, il quale ha dichiarato: «The only thing I can say is: let’s not push! Flexibility is a margin, it can be used only once». Come a dire, la flessibilità può essere una eccezione ma non diventerà la regola.

Il dibattito si è progressivamente surriscaldato tanto che anche a Berlino la cancelliera Merkel ha ritenuto opportuno fissare un incontro di lavoro per venerdì 29 gennaio con Matteo Renzi. Argomento ufficiale del summit era la gestione europea dei migranti, altro tema su cui Roma si è spesso trovata isolata. L’incontro, preceduto da un’intervista del Premier italiano al quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine, si trasforma però nell’ennesimo dibattito tra visioni economiche differenti. Matteo Renzi chiede direttamente l’esclusione delle spese per i migranti, compreso il sostegno economico per la Turchia, ma riceve l’ennesima porta in faccia dalla cancelliera. Alla richiesta inoltre di un appoggio tedesco in vista del giudizio della Commissione sullo stato delle finanze dell’Italia, la cancelliera tedesca si è limitata ad una fredda risposta: «Interpretare i conti pubblici è fortunatamente compito della Commissione». Non certo un’espressione di sostegno.

Il lunedì successivo Junker scrive una lettera diretta al primo ministro italiano in cui dice che i fondi per la Turchia saranno esclusi dal Patto di Stabilità e Crescita, ma per quanto riguarda le politiche sui migranti, una risposta arriverà solo nei prossimi mesi. Ennesimo scontro ed ennesima contro risposta italiana, nelle parole dell’europarlamentare Patrizia Toia: «Inaccettabile distinguere tra migranti di serie A e di serie B».

Ora, che lo scontro si stia sempre di più infuocando è evidente, come chiaro è il motivo della diatriba: l’Italia non può più sostenere e non vuole più adottare politiche di austerità e per questo è disposta ad uno scontro diretto con i partner europei. La domanda è dunque ora se il gioco valga la candela, sia da una parte sia dall’altra. Per rispondere usciamo dal fumo del dibattito politico e prendiamo in considerazione i fatti concreti. In un recente articolo, apparso sull’Economist il 30 gennaio, si fa una semplice constatazione: un’eventuale uscita dell’Italia dalla moneta unica comporterebbe una dissoluzione completa dell’area euro e forse non solo. Fatta questa premessa, cerchiamo di capire quello che chiede il nostro governo.

L’attuale situazione italiana si può descrivere così: cinque anni di recessione, PIL pro capite ai livelli del 1999, debito pubblico oltre il 130% del PIL, economia non competitiva (su questo punto ci sarebbe da aprire un dibattito sull’impossibilità del Unione Monetaria Europea di garantire alle economie a domanda interna ogni qualsiasi forma di crescita), decrescita costante della produttività dal 1998, diminuzione progressiva delle esportazioni e alto costo del lavoro. Insomma, un bilancio non certo positivo e certamente senza prospettive di miglioramento, stando alle condizioni presenti. A ciò si aggiunge un alto tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile, disincentivi agli investimenti, basso numero di laureati rispetto agli altri paesi sviluppati e un sistema di tassazione che incoraggia l’evasione fiscale.

Quando nel marzo 2014 Renzi diventa primo ministro, cerca di dare una svolta a questa situazione. Adottando a modello l’Agenda 2010 del governo tedesco di Schröder (2003), Renzi approva una serie di norme nella direzione di una liberalizzazione dell’economia, una maggiore flessibilità in uscita, sgravi fiscali alle aziende e, per farla breve, tutte le misure contenute nel Jobs Act. Tali misure sono state apprezzate a suon di applausi dall’Europa, però i risultati tardano ad arrivare. Secondo una stima del Fondo Monetario Internazionale l’Italia crescerà nei prossimi tre anni solo dell’1%. Non solo, ma la crisi dei migranti sembra ormai essere sfuggita di mano ai tecnocrati europei e il sistema bancario italiano ha mostrato le prime crepe, il che rende la posizione di Roma assolutamente incerta e traballante all’interno dell’Eurozona.

Non a caso, la scorsa settimana, il governo italiano e la Commissione europea hanno concordato uno schema contorto per alleviare il sistema bancario italiano di alcuni di questi asset tossici. Esso utilizza tutti i trucchi sporchi della finanza moderna, tra cui il famigerato credit default swap, un prodotto finanziario che imita l’assicurazione contro l’insolvenza su un legame, particolarmente popolare durante la bolla del credito prima del 2007. Questi strumenti consentono agli investitori la copertura contro il rischio di default. Ma il più delle volte, il loro vero scopo è quello di nascondere le informazioni, per ingannare gli investitori, o di aggirare le restrizioni normative.

La proposta di risolvere la crisi di solvibilità dell’Italia attraverso un trucco finanziario è logicamente qualcosa di assurdo, ma, come ha sottolineato bene Wolfgang Münchau sul Financial Times, c’era ben poco che l’Italia potesse fare stando negli stretti vincoli europei. La Commissione aveva infatti precedentemente bloccato la proposta di creare un classico bad bank, ossia una società di proprietà dello Stato che avrebbe comprato il debito tossico direttamente dalle banche commerciali, dando loro un immediato sollievo. Secondo la Commissione questo avrebbe costituito un aiuto di Stato illegale. Si è preferita invece una soluzione che non darà sollievo all’economia italiana ma che servirà solo a creare le condizioni di un mercato efficiente che rimetta in circolo una parte di questo debito tossico.

Questo sistema però è destinato a non sopravvivere a lungo e questo è quanto da mesi il nostro premier sta sbandierando ai tecnocrati europei e ai sostenitori indefessi della flessibilità. Se si vuole la fine dell’Italia allora si prosegua sulla via di Berlino.

Noi non ci stiamo. Per questo, stavolta, stiamo con Matteo Renzi!

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Francesco Corti

Dottorando presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano e collaboratore dell'eurodeputato Luigi Morgano. Mi interesso di teorie della democrazia, Unione Europea e politiche sociali nazionali e dell'Unione. Attivo politicamente nel PD dalla fondazione. Ho studiato e lavorato in Germania e in Belgio.

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