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Henry James

«Il giro di vite» di Henry James: il racconto perfetto

4 minuti di lettura

Cento anni fa, per la precisione il 28 febbraio 1916, moriva a Londra Henry James, colto da un attacco di cuore. Si racconta che sul letto di morte volesse ascoltare la sua musica preferita: la sinfonia, da lui conosciuta a menadito, che eseguiva l’amata Remington, la macchina da scrivere con cui James ha scritto capolavori come Il giro di vite. Un addio al mondo che non poteva avvenire senza il suono dei tasti.

Fra i più prolifici scrittori a cavallo fra Otto e Novecento, Henry James si è dedicato soprattutto alla forma breve del narrare, a quel magma sfuggente a ogni definizione quale è il racconto. Il giro di vite (1898) è universalmente riconosciuto come la perfetta storia di fantasmi, ambientata nella campagna dell’Essex, a nord di Londra; ma Il giro di vite non è solo un abbandono alla fantasia, perché questo magistrale racconto lungo riguarda l’alfabeto della condizione umana. La paura, punto focale dello sguardo di James.

Henry James

«Lo chiamo tempo, ma quanto durò?»

«Il racconto ci aveva tenuti attorno al focolare col fiato sospeso». L’attacco del libro è una frase che potrebbe servire da conclusione: il rito della narrazione in notturno si compie ascoltando devotamente il cantastorie della serata come se ogni parola fosse un segno premonitore, ogni passo del protagonista un passo verso l’abisso. La notte si consuma così «col fiato sospeso». In realtà il racconto non è davvero quello de Il giro di vite (ecco la prima delle tante trappole di Henry James).

La trama

L’inizio in medias res si riferisce a un racconto di fantasmi che, dopo aver spaventato gli ospiti, ne suggerisce un altro a tale Douglas. La narrazione, dunque, è inserita in una precisa cornice. A scrivere Il giro di vite è un’ignota amica di Douglas, una delle componenti del «circolo ristretto silenzioso» che riporta la storia tenuta dall’uomo durante uno dei ritrovi successivi a quel racconto citato inizialmente. Douglas, a sua volta, recita ad alta voce il diario di Miss Giddens, sua vecchia conoscente, la protagonista vera e propria del libro. Il racconto si muove in un’atmosfera sacrale, «davanti al focolare soggiogato da una comune emozione senza pari». James sembra dipingerci il racconto come la forma espressiva dell’uomo primitivo.

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A Miss Giddens spetta la cura di Miles e Flora, i due nipotini del suo datore di lavoro. I bambini ammaliano la giovane istitutrice con il loro candore, e con una rispettabilità così insolita per la tenera età che Miss Giddens, ricevuta la lettera di espulsione di Miles dal collegio, è preda delle più drammatiche congetture. Di certo deve essere stata l’invidia dei compagni a rovinare il piccolo, pensa, perché «egli era semplicemente troppo delicato e schietto per il piccolo mondo […]». Similmente vive Flora, rosea come il fratello. Quest’aria che, pagina dopo pagina, agli occhi del lettore si colora di iridescenze paradisiache, è presto tranciata.

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Strane figure perseguitano l’istitutrice: sono Miss Jessel e Peter Quint, i defunti inservienti della casa. Essi appaiono alla protagonista di notte e di giorno – ma sempre nell’oscurità, che sia sotto il raggio lunare o nelle stanze cieche della dimora. Nei momenti in cui la donna è allucinata dagli eventi che vede accaderle intorno, la realtà si deforma. Stessa situazione avviene durante la lettura di un racconto. «Lo chiamo tempo, ma quanto durò? Oggi non sono in grado di precisare la durata di quegli avvenimenti. Dovevo aver smarrito la nozione del tempo: i fatti non potevano esser durati quanto in effetti mi sembrava».

Il giro di vite: la condizione umana

Avvicinarsi a Il giro di vite significa aderire con Miss Giddens (Henry James) a una serie di patti. Il primo, il più evidente, è linguistico: il diario è stato veramente scritto e riportato con queste parole, altrimenti non sarebbe una confessione ma un’invenzione. Il secondo è un patto, per così dire, di attenzione: il racconto dei fantasmi apparsi a Bly richiede l’esercizio di accorgersi, per ascoltare la vastità di discorsi ricavabili da questo pozzo letterario. Se si interpretasse Il giro di vite come un semplice intrattenimento fatto di colpi di scena e pause strategiche, la vicenda di Miss Giddens sarebbe sciocca ai nostri occhi, insipida. In realtà Henry James, adottando i meccanismi del racconto nero, indaga sulle ansie dell’uomo, sulla nuda paura di trovarsi a combattere con ciò che forse non è o che sembra essere.

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«Lì ora sentivo di nuovo (perché l’avevo già sentito più volte) quanto il mio equilibrio dipendesse dalla vittoria della mia ferma volontà, la volontà, cioè, di chiudere gli occhi il più possibile sul fatto che ciò che dovevo affrontare era rivoltante, contro natura. Non potevo resistere se non entrando, per così dire, in confidenza con la «natura» e tenendone conto, e considerando la mia prova mostruosa come una spinta verso una direzione insolita, ovviamente, e sgradevole, ma che dopo tutto non richiedeva, per farvi fronte serenamente, che un altro giro di vite alla comune virtù umana»

Per affrontare i fantasmi di Miss Jessel e Peter Quint, la Giddens deve quindi dare «un altro giro di vite» alla sua condizione umana. Solo così può liberarsi. Allo stesso modo, al termine del libro, il lettore si accorge di aver partecipato a un rito, quello del racconto, che ha come centro il racconto stesso e di non aver bisogno di stringere ancora la vite: solo alla fine scopriamo la necessità delle sue parti, quando non sapremmo cambiare una sola parola del racconto che ci ha fatto cogliere la genealogia di tutti noi. Ecco il racconto perfetto e la sua ricca povertà.

Andrea Piasentini

Miles alla finestra. Fotogramma del film "Suspense" (1961), tratto da "Giro di vite". theartofexmouth.blogspot.com
Miles alla finestra. Fotogramma del film “Suspense” (1961), tratto da “Giro di vite”.
theartofexmouth.blogspot.com

 


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