Non era certo necessaria la sentenza della Corte di Strasburgo dello scorso 21 luglio 2015, in cui si diceva chiaramente che l’attuale assetto normativo italiano non tutela i diritti di una parte dei cittadini, per sapere che sul tema dei diritti civili l’Italia è culturalmente e giuridicamente indietro anni luce rispetto al resto dell’Occidente: accompagnata da Grecia, Cipro, Lituania, Lettonia, Polonia, Slovacchia, Bulgaria e Romania, l’Italia è l’unico dei sei Paesi fondatori dell’Unione Europea a non aver ancora riconosciuto alcuna forma di diritto civile alle coppie gay. La sentenza della Corte di Strasburgo ha avuto tuttavia il merito di dare il “La” decisivo al dibattito politico sui diritti LGBT e al percorso parlamentare delle unioni civili: lo scorso 14 ottobre l’aula del Senato ha affrontato, per la prima volta nella storia della nostra Repubblica, un dibattito sulla questione. Sono stati discussi 14 disegni di legge in materia, ed il “prescelto” da gettare nell’arena parlamentare è stato il cosiddetto Ddl Cirinnà.
Dopo mesi di aspre polemiche, reticenze e mediazioni tra le forze di maggioranza, il Ddl Cirinnà approderà al Senato il prossimo 29 gennaio. Si tratta di una tappa cruciale per il disegno di legge, dato che si voterà a scrutinio segreto ed il Governo non ha dato alcuna indicazione di voto, rimettendo la questione alla libera coscienza dei singoli parlamentari: Nuovo Centro Destra e Area Popolare sono fortemente critici sull’intero pacchetto normativo, mentre l’ala cattolica del Partito Democratico ha più volte espresso le proprie riserve sulla cosiddetta stepchild adoption, che – dicono – aprirebbe la strada a pratiche come l’adozione da parte delle coppie formate da persone dello stesso sesso e l’utero in affitto. I parlamentari dell’area più conservatrice, vicina alle gerarchie ecclesiastiche vaticane, hanno addirittura sollevato pregiudiziali di costituzionalità: appellandosi alla sentenza 138/2010 della Corte Costituzionale, sostengono che la Costituzione sancirebbe esplicitamente che il matrimonio è solo e soltanto l’unione formalizzata tra persone di sesso diverso.
Il sistema mediatico italiano, al solito, non sta dando un grande aiuto: tra talk show e articoli che dicono tutto ed il contrario di tutto, risulta davvero difficile capire cosa oggettivamente preveda il Ddl Cirinnà e quanto di vero ci sia nei polveroni sollevati da politici e commentatori televisivi.
Occorre dunque chiedersi: quale è il contenuto del Ddl Cirinnà? cosa è realmente la stepchild adoption? È vero che la Corte Costituzionale ha sancito l’incostituzionalità dei matrimoni gay?
Innanzitutto, il contenuto del disegno di legge. Il testo è diviso in due parti: la prima riguarda le unioni civili tra persone dello stesso sesso, la seconda il riconoscimento della convivenza di fatto tra persone dello stesso sesso o di sesso diverso. Bisogna dirlo fin da subito: le unioni civili previste dal Ddl Cirinnà sono formalmente altra cosa rispetto al matrimonio, e gran parte delle attenzioni dei legislatori (e, a quanto pare, anche del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella) sono state rivolte proprio all’esigenza di eliminare dal Ddl Cirinnà ogni riferimento agli articoli del codice civile che disciplinano il matrimonio. È stato dunque creato un nuovo istituto giuridico, che parla dell’unione civile come di una “formazione sociale specifica“, che tuttavia nella sostanza estende alle coppie formate da persone dello stesso sesso la quasi totalità dei diritti e dei doveri contenuti nell’istituto del matrimonio: le unioni civili vanno stipulate davanti ad un ufficiale dello stato civile alla presenza di testimoni, e le persone che lo stipulano devono essere maggiorenni; chi si sia già sposato o abbia già contratto un’unione civile in vigore, non ne può contrarre altre; con l’unione civile è possibile prendere il cognome del partner, se lo si desidera; sono presenti diritti come la reversibilità della pensione, la possibilità di visitare il proprio partner in carcere e di accedere alle procedure previste dalle strutture ospedaliere per visitare il compagno ricoverato; c’è l’obbligo della fedeltà, della coabitazione, dell’assistenza morale e materiale; per rompere un’unione civile è necessario ricorrere al divorzio; si parla esplicitamente, anche, di stepchild adoption: sul punto, come si è detto, permangono tuttavia ancora forti perplessità e divisioni nelle forze politiche di maggioranza, e l’unica certezza al momento è che sono escluse altre forme di adozione.
Nessuna equiparazione formale al matrimonio, nessuna forma di incentivazione dell’utero in affitto, dunque: semplicemente, l’estensione alle coppie omosessuali di una larga parte dei diritti e dei doveri contenuti nell’istituto del matrimonio. Su cosa si stanno concentrando le polemiche, pertanto? Leggendo le dichiarazioni dei parlamentari del PD che hanno espresso il proprio mal di pancia, l’intera questione si concentrerebbe sull’art. 5 che introduce “Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184″, ovvero la legge che disciplina le adozioni, e che stabilisce: «All’art. 44, comma 1, lettera b), della legge 4 maggio 1983, n. 184, dopo la parola “coniuge” sono inserite le seguenti: “o dalla parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso” e dopo le parole “e dell’altro coniuge” sono aggiunte le seguenti: “o dell’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”». Questa modifica, secondo i parlamentari malpancisti, aprirebbe la strada al diritto di adozione da parte delle coppie omosessuali, aggirando così la differenza cardine tra unione civile e matrimonio, e cioè appunto la possibilità di adottare. Se si va a leggere il suddetto art. 44, tuttavia, si scopre che esso stabilisce la possibilità che i minori siano adottati «dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge»: non la possibilità di adottare in generale, dunque, ma soltanto la possibilità di adottare il figlio dell’altro coniuge, una possibilità che il Ddl Cirinnà estenderebbe alle unioni civili. Ecco la tanto contestata stepchild adoption, nulla di più nulla di meno.
Chi si oppone alla stepchild adoption tira in ballo i “diritti dei minori”, affermando le difficoltà dei minori nel crescere in una famiglia con due babbi o due mamme: eppure, è proprio per tutelare i diritti del minore che il legislatore ha introdotto questa forma specifica di adozione, e non si hanno riscontri scientifici che ciò causi problematiche psicologiche al bambino (anzi, numerosi studi mostrano il contrario; è sufficiente cercare su internet per farsi un’idea). Che sia dunque un argomento strumentale, per affossare un disegno di legge di cui non si condivide il principio di fondo, e cioè l’estensione dei diritti civili ai gay? Ognuno, conoscendo i contenuti Ddl Cirinnà, si formerà la propria opinione.
Infine, la sentenza 138/2010 della Corte Costituzionale. Di recente, vari giornali (tra cui la Repubblica, in un articolo di qualche giorno fa) hanno lasciato intendere che in Italia non possono essere approvati i matrimoni gay perché la Corte Costituzionale ne avrebbe sancito l’incostituzionalità con detta sentenza. Leggendone il testo, tuttavia, ci si rende conto che la Corte Costituzionale, esprimendosi sul ricorso presentato da una coppia di omosessuali ai quali era stato impedito di sposarsi, ha semplicemente sancito che l’attuale assetto normativo non contraddice la Costituzione: non (cosa ben diversa) che il matrimonio gay è incostituzionale. D’altra parte neppure avrebbe potuto, e per un motivo ben preciso: la Corte Costituzionale non ha funzione legislativa, ma esclusivamente di verifica della legittimità costituzionale delle norme già esistenti nell’ordinamento giuridico. Non essendo presente il matrimonio gay nel sistema giuridico italiano, come avrebbe potuto sancirne l’incostituzionalità? Questo, tenendo presente che
«I costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un’articolata disciplina nell’ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso. In tal senso orienta anche il secondo comma della disposizione che, affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attribuire pari dignità e diritti nel rapporto coniugale. Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa. Si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto».
Ciò che la Corte Costituzionale dice, quindi, è che sebbene l’omosessualità fosse un fenomeno sessuale già esistente – ovviamente – al tempo dei costituenti, il problema di equiparare una coppia gay alla famiglia eterosessuale non era minimamente preso in considerazione, e che quando furono scritti gli articoli della Costituzione sul matrimonio, i costituenti avevano in mente l’unione tra un uomo e una donna. Si tratta pertanto di una interpretazione, da parte della Corte Costituzionale, di ciò che i costituenti pensavano al tempo, e non di un passaggio della Costituzione: la quale, al contrario, non parla di “marito” e “moglie”, bensì soltanto di “coniugi” e persino in quello che è l’articolo fondamentale sul matrimonio, l’articolo 29: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare».
A dimostrazione del fatto che la Corte Costituzionale si esime dal pronunciarsi sulla costituzionalità delle nozze gay, c’è il rimando esplicito alla funzione legislativa del Parlamento: «Ancora una volta, con il rinvio alle leggi nazionali, si ha la conferma che la materia è affidata alla discrezionalità del Parlamento. Ulteriore riscontro di ciò si desume, come già si è accennato, dall’esame delle scelte e delle soluzioni adottate da numerosi Paesi che hanno introdotto, in alcuni casi, una vera e propria estensione alle unioni omosessuali della disciplina prevista per il matrimonio civile oppure, più frequentemente, forme di tutela molto differenziate e che vanno, dalla tendenziale assimilabilità al matrimonio delle dette unioni, fino alla chiara distinzione, sul piano degli effetti, rispetto allo stesso». Dei matrimoni gay si occupi il Parlamento: la verifica di costituzionalità avrà semmai luogo in seguito ad un ricorso alla Corte Costituzionale.
Arenato nelle sabbie mobili dei pregiudizi e delle strumentalizzazioni, il Ddl Cirinnà rischia seriamente di essere affossato dal voto segreto del Senato. Proprio per questo motivo, oggi Sabato 23 gennaio in molte piazze d’Italia si terrà la manifestazione #svegliaItalia a sostegno delle unioni civili, una settimana esatta prima che si tenga l’opposta manifestazione del Family Day, in cui le forze politiche conservatrici alzeranno la voce per costringere nella privazione dei diritti una fetta consistente di cittadini italiani. A dimostrazione che, Ddl Cirinnà o meno, la questione dei diritti LGBT è destinata a suscitare aspre polemiche e contrasti politico-culturali ancora per molto tempo, con la prospettiva pericolosa di divenire il nuovo cavallo di battaglia di un fronte reazionario che, in Italia, in tutte le fasi storiche di crisi ha trovato terreno fertile.
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[…] partecipanti al Family Day, erano comunque troppi. Tanti in questi giorni stanno sostenendo che il ddl Cirinnà sulle unioni civili non è certo la priorità dell’Italia e che i problemi sono ben altri. […]
[…] di legge Cirinnà sia davvero il minimo sindacale (per approfondirne i contenuti si rimanda a questo articolo), neppure questa sembra essere la volta buona per allineare l’Italia al resto d’Europa […]
[…] è stato avvilente assistere alla pusillanimità della nostra classe dirigente, che ha invocato inesistenti vincoli costituzionali per giustificare la propria mancanza di coraggio (laddove non l’aperta […]