Heroes non è una canzone d’amore. È l’amore a cantare Heroes, in sei minuti con le spalle inchiodate al muro di Berlino che non è mai stato abbattuto. La chitarra nebbiosa e sfolgorante, le vibrazioni del sintetizzatore, il ritmo perfettamente circolare, tutto si incastona nella voce di un uomo impaurito dall’uomo, da cocaina e alcol, che nel mezzo della sua crisi personale ha sprigionato questo raggio di luce. E lo stupore nasce dal fatto che l’amore canta nei panni di un duca gelido, un vero alieno bianco atterrato da Marte su Berlino.
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Ma la grandezza di David Bowie è stata quella di rimanere se stesso trasformandosi incessantemente, dando voce e corpo alle proprie ossessioni riposte, in un’epoca in cui la parola «trasformismo» ha assunto solo accezioni negative. Il White Duke ha lottato contro la paura di cambiare, l’ansia di dover rimanere uguali a se stessi, autoevidenti, ricordando che «we can be us / just for one day».
Ziggy Stardust, Halloween Jack, il Thin White Duke, e Lazarus, l’ultima faccia nell’ultimo album. Dov’è finito questo potere di sospendere il dolore in musica e farlo bellissimo? A chi è andata l’eredità di David Bowie?
Il trasformismo è il suo più evidente lascito. Ad oggi sono tante le popstar che non sarebbero esistite senza la sua eccentricità: Madonna, Lady Gaga, e – perché no – Katy Perry devono molto alle conquiste raggiunte dal glam rock di qualche decennio fa. Stupisce, poi, quanto siano riuscite ad appiattirle. In ogni caso, tutto il «pop» odierno è debitore degli esperimenti avvenuti nei Trident studios di Londra, a cavallo fra i Sessanta e i Settanta.
Il secondo – più problematico – punto del suo testamento virtuale: «The gift of sound and vision». Accedere a un’altra dimensione, più vera forse, attraverso la complessità dei suoni. Negli ultimi anni, dall’avvento di internet in poi, buona parte della musica indipendente ha preso la strada dell’ibridazione fra generi diversi (a volte arraffando qua e là, all’insegna – disperata – dell’alternativo).
Da ricordare, per esempio, Beck, il campione nella specialità «eccentricità», capace di passare dallo spirito fancazzista e geniale di Loser, esordio balzato nella vetta delle classifiche 1994, all’arrangiamento orchestrale di Sound and vision. Oppure Julia Holter, ex alunna di composizione alla Michigan University che nell’ultimo Have you in my wilderness (Domino, 2015) è riuscita a conciliare il pop con la sua passione viscerale per l’avant-garde della classica contemporanea, per la grecità e per tutto ciò che è sperimentalismo spinto. Come il suo Tragedy (2011) concept album sulla tragedia Ippolito di Euripide – i testi sono presi dall’opera greca e riassemblati secondo criterio sonoro. Il rischio di pretenziosità è andato sparendo, lo dimostra il singolo Sea calls me home, frutto maturo delle due anime della Holter.
Il giovane dodicenne Thom Yorke, dei Radiohead, vedendo il video di Ashes to ashes (1980) si è detto, in mezzo agli altri bambini stupiti dalla stranezza di quel singolo, «voglio fare questo nella vita». E a quanto pare ci è riuscito, considerato che la decina di dischi all’attivo, fra Radiohead, carriera solista e Atoms for Peace, lo ha fatto diventare il volto della generazione x. Voce affilata e tremante ad accompagnare un gruppo, i Radiohead, che ha costruito la propria identità sul trasformismo, proprio come il Duca Bianco. Yorke, però, è l’esatto opposto della teatralità: niente lustrini, niente vestiti eleganti, lo stesso viso «british» così algido e distaccato. Uno dei temi ricorrenti è l’alienazione. Se Bowie la canta talvolta in maniera grottesca e scanzonata, i Radiohead si concentrano quasi sempre sulla progressiva disumanizzazione della vita – chiari, in questo senso, alcuni dei più famosi titoli, come Fake plastic trees o Paranoid android.
Il vero punto comune fra i due è la disinvoltura nell’usare così tanti linguaggi musicali. Si prendano due punti dei Radiohead, il post-punk di Anyone can play guitar e l’elettronica di Packt like sardines in a crushed tin box: fra questi passano innumerevoli sonorità. La complessità musicale di Thom Yorke e compagni si risolve così in un intrico di influenze teso verso ciò che il cantante definisce essere «tra quello che è umano e quello che viene dalle macchine». Che ricorda una frase di David Bowie: «Ho sempre sentito il bisogno viscerale di essere qualcosa più che un umano. Mi sono sentito molto, molto fragile come umano».
E infine, i canadesi Arcade Fire, grazie ai quali il rock è tornato a splendere come un’opera barocca. Affiancato dalla moglie Régine Chassagne e dal fratello William Butler, Win Butler è il volto di una band che fa del vitalismo la sua forza: i suoni sono cristallini e ricchi, quasi ogni membro è polistrumentista, e questo permette di adottare – ancora una volta – più forme sonore per le stesse emozioni. Gli Arcade Fire sembrano essere usciti dalla fine dei Settanta, da una pioggia di archi, cori, chitarre e sintetizzatori malinconici, e sbarcati direttamente negli anni Venti dei Duemila. Anche a loro è andato quel dono di «sound and vision». Fra i primi ad accorgersene è stato David Bowie, che ha pubblicamente apprezzato la loro opera fin dal disco d’esordio Funeral (2004). Appena un anno dopo l’uscita dell’album il marziano di Brixton ha affiancato gli Arcade Fire in un concerto al Fashion rocks di New York. In Reflektor, poi, ha cantato in un paio di versi della title track, un gioiello che sembra riflettersi in un gioco di specchi.
«Parlare di musica è come ballare di architettura», diceva Frank Zappa. E non è facile, del resto, capire cosa sia rimasto, oggi, di David Bowie, di un musicista che ha vissuto in nome della totalità artistica. Come ogni mortale ha esplorato galassie stralunate, ma così diverse tra loro che una di queste l’ha fatto diventare l’idolo delle discoteche anni ’80. Oltre a quello di lasciarsi cambiare, David Bowie ha regalato l’insegnamento più effimero, il più delicato: la possibilità di sospendere la morte e farla apparire quasi improbabile, vivendo anche un solo giorno.
Andrea Piasentini
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