«La vita è scarsamente drammatica. Ignora alternative categoriche come ‘sì o no’, ‘bianco o nero’, ‘tutto o niente’» ha detto Bertolt Brecht: il teatro invece può mostrare i due termini della contraddizione uniti in una stessa persona. Questa scissione è illustrata in Pùntila e il suo servo Matti (1940), opera atipica del grande drammaturgo, composta durante il suo esilio finlandese. In occasione del sessantesimo dalla morte, Brecht si riaffaccia in molti teatri milanesi e la compagnia dell’Elfo sceglie proprio questa «commedia popolare», fra le più amate all’estero, ma in Italia poco rappresentata.
Doppia firma per la regia, frutto della collaudata coppia artistica Ferdinando Bruni e Francesco Frongia.
La scena, realizzata anch’essa a quattro mani, prevede un piano superiore, dove scorrono proiezioni, disegni, e soprattutto i titoli delle scene, come indicato da Brecht. Ma il brulicare dell’umanità, interpretata da dodici affiatati attori, è di sotto, dove prende vita una Puntiland universale e simbolica. Qui il denaro è misura di tutte le cose, e infatti il regno dell’eroe eponimo, Mr.Pùntila, si apre dietro a un siparietto di tela grezza che riproduce un’enorme banconota simile al dollaro, ma con la dicitura Puntiland of States of Puntila.
L’ambiente, in colori seppiati e sanguigni, è quello di un’anonima provincia rurale dai tratti ruvidi e rozzi, privo di ogni tonalità idillico-bucolica: le foreste sono patrimonio per la dote, i maiali buoni da imbandire a mensa, così come i quarti di bue, disegnati o appesi, e gli enormi crani e le ossa esibiti al banchetto, segnali di un mondo brutale.
Nel Prologo una popolana (Ida Marinelli) avvisa lo spettatore che questa sera ascolterà «le truci vicende di un ricco sfondato», il «padrone-mostro» Pùntila (Bruni). In lui si annida la dialettica degli opposti, che assume tratti comici e grotteschi: lucido e sobrio, Pùntila è infatti uno sfruttatore impietoso e volgare; da ubriaco invece è capace di slanci democratici impensabili, come quando si fidanza nel giro di poche ore con quattro popolane per «portare un raggio di sole» nelle loro vite meschine, o insulta i signori della buona borghesia.
Non aspettatevi però di vedere un beone traballante, con lo sguardo stralunato e la bocca impastata. Tutt’altro: Pùntila ubriaco è pienamente cosciente, conduce con ritmo e sequenzialità logica anche i suoi sproloqui, per esempio rivolto al palo della luce che, vigliacco, si è parato di fronte alla sua auto e ora «se ne sta lì impalato», o al veterinario, a cui chiede una damigiana di grappa per guarire le sue mucche malate di tosse asinina e orecchioni… Un lato comico, pronto però a sfumare subito in rimbrotti severi e minacce da tiranno, appena passata la sbornia.
Gli sguardi ombrosi e il realismo dell’autista Matti (Luciano Scarpa) funzionano da essenziale contrappeso. In quanto servitore, egli asseconda le assurdità del padrone alticcio, talvolta si diverte, ma resta sempre con i piedi per terra. Se l’ebbrezza dionisiaca di Pùntila apre spiragli di possibilità per comportamenti ugualitari e democratici, Matti sa che questo mondo alla rovescia è un’utopia creata dal vino, fragile come una bolla di sapone. Sarà lui infatti a impartire una lezione di crudele cinismo alla figlia del padrone. Il matrimonio combinato dal padre con un noioso diplomatico dovrebbe garantire a Eva (Elena Russo Arman), capelli biondo-platino e vestiti di raso hollywoodiani, l’accesso all’alta società. Ma la ragazza è sensibile al fascino virile dell’autista e si sottopone a una sorta di test di resistenza in una ipotetica vita di ristrettezze economiche: umiliata dal fallimento, acquista consapevolezza dell’incolmabile differenza di classe.
Paradossalmente quindi è Matti a riportare ordine: egli sa bene che nella “sobria” realtà non c’è spazio per la condivisione delle mense. Nella finzione invece è tutto possibile, come quando Matti si fa “regista” di un’arlecchinata, invitando le quattro fidanzate popolane di Pùntila a provare un discorso di riscatto contro le autorità, ma è solo lo sprazzo di un momento. Infatti un lavoratore che protesta è un sovversivo, un bolscevico da licenziare, perché, dice il Pùntila di Bruni parodiando il politichese odierno, «il posto fisso è per chi è privo di slanci, per i pigmei morali».
Durante le due ore di spettacolo risuona spesso la parola «essere umano». Pùntila mostra barlumi di umanità solo quando ha la mente annebbiata dall’alcool, poi basta un caffè, ed eccolo ritornare «caimano», riferimento lampante a certo capitalismo senza scrupoli di stampo berlusconiano (si veda il film di Nanni Moretti, Il caimano, 2006).
In un crescendo ad effetto, Pùntila si fa prendere da un delirio di onnipotenza che ricorda per certi aspetti il Mazzarò della novella verghiana: dall’alto mostra a Matti la sua “roba”, tutti i suoi beni, che scorrono proiettati sul fondale nei disegni di Bruni, e lasciano poi il posto ai volti consunti e feroci dei proletari che avanzano minacciosi, una sorta di Quarto Stato di Giuseppe Pelizza da Volpedo. È allora che Matti decide di partire, prima che la schizofrenia del padrone lo divori, guidato però dalla speranza di un futuro in cui i servi potranno essere «padroni di se stessi | e allora da nessun padrone si sentiranno più oppressi».
Il velo di amarezza e malinconia resta affondato dietro una tramatura comica, scoppiettante di gags, eccessi e gestualità da film muto. Intorno al protagonista ruota un caleidoscopio ben coeso di caricature grottesche, interpretate da attori storici del Teatro dell’Elfo e da nuove leve. Ad esempio la macchietta dell’attaché (Umberto Petranca), diplomatico vanesio e squattrinato (Pùntila lo definirà «cavalletta mangiaboschi in frac»), tutto compiaciuto delle sue improbabili amicizie altolocate e del suo insulso gergo ibrido (si congeda con un irresistibile: «Les jeux sont faits. Rien ne va plus. Alea iacta est»), e poi il giudice, il pastore e sua moglie, l’avvocato, le popolane e i servitori di Pùntila. Come nei dettami di Brecht, il tutto è accompagnato da canzoni e musica (originali di Paul Dessau riadattati da Matteo De Mojana, che è anche attore), elemento straniante e narrativo, impostato su basi popolari o motivi noti.
Risate garantite per questa allegoria del capitalismo vorace e disumanizzante, come mostrano gli interminabili applausi, ancora più caldi quando la compagnia scende dal palcoscenico e sfila nella sala per salutare il suo pubblico.
Mr Pùntila e il suo servo Matti
di Bertolt Brecht
regia e scene di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
produzione Teatro dell’Elfo
Teatro Elfo Puccini di Milano
30 novembre – 31 dicembre 2015
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