Ma ero deciso a consacrarvi le mie forze, che svanivano come a malincuore e come se avessero potuto lasciarmi il tempo, portata a termine la struttura perimetrale, di chiudere la “porta funeraria”. Presto fui in grado di mostrare qualche abbozzo. Nessuno ci capì niente.
(da Il Tempo ritrovato – Marcel Proust)
Scrivere di Marcel Proust significa, innanzitutto, scegliere di quale Marcel Proust scrivere. La sua eredità è immensa, tocca ogni capolavoro della letteratura del Novecento, e sulla sua Recherche si è affannato il fiore della critica del secolo passato – Erich Auerbach, Gilles Deleuze, Teodor Adorno, e Gianfranco Contini solo per ricordarne alcuni. Il turbinio di interpretazioni vivifica un’opera letteraria. È la testimonianza che il suo respiro apre finestre su più correnti del sapere, seppure divergenti tra loro. Non è azzardato, infatti, affermare che Alla ricerca del tempo perduto annuncia le esperienze del surrealismo e del nuovo realismo, essendo il sogno ininterrotto di un individuo che fluttua, preda di una lucida insonnia, nella mondanità parigina; né tantomeno dovrebbe stupire che la portata rivoluzionaria di Proust, la sua carica modernista risieda in un monumento di oltre tremila pagine, scolpito in un francese elegante e prolisso. Ma com’è possibile tutto ciò, come può uno scrittore novecentesco dare più di tremila sfumature alla realtà, passando dallo sguardo antropologico sulla “benpensante” società francese a quello epifanico su una tazza di tè?
L’opera – cattedrale di Proust è costruita da sette libri (composti tra il 1909 e il 1927) e narra, in sostanza, la formazione del Narratore a scrittore. Dalla parte di Swann, All’ombra delle fanciulle in fiore, La parte di Guermantes, Sodoma e Gomorra, La Prigioniera, Albertine scomparsa, Il Tempo ritrovato. Se si dovesse incollare un genere tradizionale alla Ricerca sarebbe dunque quello del Bildungsroman. Anche il più inesperto lettore, tuttavia, avverte la distanza siderale tra l’impianto proustiano e quello di Charles Dickens – giusto per citare un grande scrittore di romanzi di formazione. Mentre il creatore di David Copperfield si appoggia sulla rappresentazione della realtà in forme narrative, Proust concilia letteratura e vita, attraversando l’intera esistenza del protagonista (io narrante) con la scrittura, l’unico strumento conoscitivo nelle mani del romanziere. Nel Tempo ritrovato, l’ultimo volume, lo scrittore definisce la letteratura come «la vera vita, […] questa vita che, in un certo senso, abita ad ogni istante in tutti gli uomini altrettanto che nell’artista». Di conseguenza, il tanto famigerato tempo proustiano è integrale alla realtà: ne ricama i luoghi, le persone e gli oggetti, perfino i più desueti. Ecco in cosa consiste il monologo interiore della Recherche, nella sua narrazione ininterrotta.
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Un altro tratto modernista dello scrittore parigino nato nel 1871 è l’oscillazione tra racconto e saggismo. L’uno confluisce nell’altro, entrambi accompagnati da una sintassi fluviale – è stato detto, a proposito dello stile, che esso sia l’esito dell’asma che ha segnato la vita di Proust, come se le frasi volessero sempre rimandare la loro conclusione. Pertanto, si trovano facilmente passi in cui la sequenza narrativa è pervasa da una riflessiva, o viceversa. Un amore di Swann, per esempio, è il racconto dell’amore tra Charles Swann e Odette de Crécy, inserito – come un romanzo nel romanzo – nel primo volume Dalla parte di Swann. Charles, uomo tanto elegante e rispettabile quanto misterioso, pende dall’amore per Swann. La desidera tanto da volerla possedere in ogni suo aspetto, da volerne condividere opinioni, segreti, azioni. Proust, in questa sezione, regala alla storia alcune fra le più belle pagine mai scritte sull’amore. Lirici greci e stilnovisti toscani, romantici dell’Ottocento e poeti contemporanei (e, perché no, futuri) tutta la specie degli amanti, insomma, vive fra Charles e Odette. Ma dal tema amoroso nascono riflessioni esistenziali, talvolta appena allusive altre volte delineate con l’acume di un saggio breve.
La sua gelosia, simile a una piovra che allunga un primo, poi un secondo, poi un terzo tentacolo, s’aggrappò saldamente a quel momento delle cinque di sera, poi a un altro, poi a un altro ancora. Ma Swann non era capace di inventare le proprie sofferenze. Queste non erano che il ricordo, il perpetuarsi di una sofferenza proveniente dall’esterno. Ma tutto, ormai, lo faceva soffrire. […] E quindi lo si vedeva […] fuggire, selvatico, la società degli uomini, quasi ne fosse stato crudelmente ferito.
Come i salotti parigini accolgono Charles Swann ignari della sua ossessione per Odette, così il lettore disattento della Recherche potrebbe dare il benvenuto a Proust come un annoiato omosessuale mondano, che passa il tempo a scrivere di boccoli e tessuti pregiati, fra le curve sintattiche di un periodo e l’altro. Ma ecco le stilettate del romanziere contro le società: «Che figure grottesche, questi borghesucci che vivono gli uni sugli altri!». La vita diventa «la peggiore di tutte», il salotto dell’alta società è un «piccolo clan, l’infimo fra tutti gli ambienti, […] il gradino più basso della scala sociale, l’ultimo cerchio di Dante». Il tempo del benessere è quello dissolto nelle campagne a casa della nonna, spiando le trame del mondo. E le strade dove Swann (l’eroe del piccolo Narratore) passeggia, coi bei lampioni accarezzati dalla caduta delle foglie, si possono improvvisamente trasformare in burroni, pozzi angoscianti. Dov’è finito allora l’uomo composto (e fragile) che sa come comportarsi nelle “civili conversazioni” con gli ospiti?
Ricordò i lampioni a gas che si spegnevano in boulevard des Italiens quando, contro ogni speranza, l’aveva incontrata fra le ombre erranti. […] E Swann vide, immobile davanti a quella felicità rivissuta, un infelice che gli fece pena perché dapprima non lo riconobbe, al punto che gli toccò abbassare gli occhi perché non si vedesse che erano pieni di lacrime. Era lui stesso
«Noi siamo memoria» sembra dirci Marcel Proust, bambino insonne che aspetta dalla madre il bacio della buonanotte. Tremila pagine (o forse di più, se la sua asma psicosomatica non l’avesse ucciso) per raccontare lo sforzo di un uomo, solitario e insicuro, col sogno di raccontare l’umanità. Tutto inizia con il ricordo del tempo vissuto a inseguire questa ambizione, con il «Longtemps, je me suis couché de bonne houre». A lungo, Marcel Proust si è coricato di buonora, dopo aver poggiato il libro degli uomini sul comodino, stanco dopo ore e ore passate a scrivere.
Andrea Piasentini
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