Se per tanti letterati del primissimo Novecento il cinema è stato semplicemente un “aiuto” capace di sollevarli dalle ambasce economiche con l’offerta di approcci ritenuti di scarto, l’atteggiamento di Gabriele D’Annunzio nei confronti della nascente “settima arte” appare, invece, completamente diverso.
D’Annunzio ha fatto cinema (soggetti mai realizzati, esperimenti con la macchina da prese e regie più o meno accreditate) e ha teorizzato sul cinema, inserendo quest’ultimo all’interno delle sue coordinate poetico-ideologiche, per certi versi in qualche modo tributarie delle aperture futuriste e avanguardiste.
Egli considerò la «decima musa Kinesis» (come dirà ancora nel 1933 al figlio Gabriellino D’Annunzio per una progettata Figlia di Jorio) come la realizzazione dell’opera d’arte totale (gesamtkunstwerk), wagnerianamente vagheggiata già in un’intervista del 1914 al Corriere della Sera concessa in vista dell’uscita nelle sale di Cabiria, il kolossal al quale il poeta ha lavorato al fianco del regista Giovanni Pastrone. Subito dopo, scrive un piccolo saggio Del cinematografo considerato come strumento di liberazione e come arte di trasfigurazione (rimasto inedito fino all’86). In esso “l’Imaginifico” elogiava la «virtù serpentina della pellicola» a fronte della «decadenza del teatro d’oggi» causata dalla «merce abominevole» venduta dai «trafficanti di drammaturgia» (il teatro prosastico e cosiddetto “borghese”). Ragion per cui proprio i poeti, secondo il Vate, dovrebbero rivolgersi al linguaggio muto del Cinema che risarcisce l’immaginazione con «l’estetica del movimento» e soprattutto con quelle possibilità illusionistiche offerte dai suoi trucchi che possono conseguire straordinarie metafore visive.
A rafforzare l’assunto D’Annunzio continuava raccontando di un suo esperimento alla Comerio film: una Metamorfosi ovidiana della quale ha realizzato solo pochi minuti. In essa un braccio della ninfa Dafne mutava in fronda. Ma secondo D’Annunzio i soliti “mercanti” avrebbero impedito una siffatta direzione di sviluppo della nuova arte e l’avrebbero posta in concorrenza con il più vieto teatro drammatico (acuta e critica prefigurazione del successivo sviluppo verso il sonoro).
Non c’è dubbio che D’annunzio abbia attuato una sorta di “super-regia” sia nei confronti della produzione del primo periodo alla Ambrosio Film (1911) sia nel secondo (1916-17) che soprattutto nei confronti della Itala Film e del grande regista Piero Fosco (nome dannunziano di Giovanni Pastrone) per Cabiria e per Il Fuoco (1915).
Nel ’14 fu girato Cabiria, kolossal italiano degno di essere accostato ai capolavori americani di David Wark Griffith, La Nascita di una nazione e Intolerance, che seguiranno a breve distanza.
Si incontrano, come fonti di ispirazione dell’intricata narrazione, Emilio Salgari, Gustave Flaubert e, addirittura Tito Livio. D’Annunzio cercò di accreditare la voce che lo voleva il principale elaboratore del soggetto e della sceneggiatura, ma si limitò a escogitare il nome della protagonista e a scrivere le didascalie.
Alcuni studiosi sostengono che sia creazione di D’Annunzio anche il personaggio di Maciste, modellato sulla base di erculee figure della mitologia classica, ma tale opinione non è condivisa da tutti gli storici del cinema. Sono invece chiari i motivi che facevano convergere l’interesse del poeta per il cinema: il rapporto diretto con un vasto pubblico, per lui una massa da ammaliare e soggiogare dal punto di vista emozionale e intellettuale, come già aveva cercato di fare avvicinandosi al teatro. In realtà, però, di tanti soggetti pensati e in parte anche elaborati, poco o nulla fu realizzato effettivamente.
Non mancano infine film di epoca più recente che hanno tratto ispirazione dalla biografia o dall’opera del cosiddetto “inimitabile”: per primo Il delitto di Giovanni Episcopo di Alberto Lattuada. Nella trasposizione cinematografica del Maestro di Vigevano di Mastronardi, operata nel 1963 da Elio Petri, D’Annunzio gioca un ruolo non trascurabile. Nel 1976 è uno dei più grandi nomi del cinema italiano, Luchino Visconti, al suo ultimo film e prossimo alla morte, a cimentarsi con un romanzo dannunziano, realizzando L’innocente. Vi domina la torbida e sofferta relazione tra il freddo e sensuale dandy Tullio Hermil (Giancarlo Giannini) e sua moglie Giuliana (Laura Antonelli).
Non certo tra i capolavori viscontiani, questo Innocente, ma di sicuro migliore rispetto al modesto biopic di Sergio Nasca, girato nel 1985.
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