Quando Nessuno torna indietro fece la sua comparsa sulla scena letteraria internazionale nessuno avrebbe immaginato in che misura la grandezza della sua autrice sarebbe stata rivoluzionaria. Cubana d’origine ma romana di natali, Alba de Céspedes è stata quanto di più bello la narrativa italiana ci abbia regalato nello scorso decennio; appena ventisettenne ha saputo plasmare con incredibile maestria le figure di otto giovani donne, pioniere ante-guerra della libertà femminile, e ha difeso, contro l’autorità e le critiche, la natura positiva della sua opera, colpevole unicamente di piazzarsi oltre lo sguardo monolitico e fuorviante imposto dal fascismo.
Censurata da Mussolini e i suoi sodali, Alba de Céspedes aveva osato dar voce a una femminilità libera, conscia di sé e delle proprie risorse. In Nessuno torna indietro ogni donna è autosufficiente e non allineata, estranea a quell’idea di “angelo del focolare” che la cultura del Ventennio voleva imporre. Le otto protagoniste – Xenia, Vinca, Emanuela, Augusta, Silvia, Milly, Valentina e Anna – sono costruite con tratto sicuro, a tutto tondo, e si mostrano, con incredibile sicurezza, assolutamente coese nel comune desiderio di arrivare a ridefinire i contorni della propria esistenza, lottando per superare la palizzata delle convenzioni sociali e culturali. Le loro vicende si intrecciano sullo sfondo dell’Italia fascista, attraversano il microcosmo del Convitto Grimaldi di Roma (elegante pensionato per universitarie) e sfiorano le fasi cruciali della vita, portando ciascuna a prendere coscienza di sé e del proprio ruolo, diverso da quello che vorrebbe per loro la società e vicino incredibilmente a quello di donne libere ed emancipate. Diverse per estrazione sociale, provenienza geografica e atteggiamento verso il mondo, le ragazze costituiscono le variegate e contraddittorie tessere di un mosaico, s’incastrano tra loro solo in maniera provvisoria, forzano gli angoli di un puzzle che, momentaneamente e gioiosamente, costituisce la vita comune nelle stanze del Grimaldi.
I destini incrociati che le vedono accomunate nella ricerca di se stesse si dipanano sulla pagina senza scontri o sbavature di sorta. Il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, il salto dalla vaporosità dei sogni alla vita di ogni giorno è riassunto perfettamente nella metafora del ponte, che connota con precisione il debole rapporto tra passato e futuro: «Ecco: è come se noi fossimo al passaggio di un ponte. Si costruiscono forse case sul ponte? Siamo già partite da una sponda e non siamo ancora giunte all’altra. Quello che abbiamo lasciato è dietro le nostre spalle, neppure ci voltiamo per guardarlo, quello che ci attende è una sponda dietro la nebbia. Neppure noi sappiamo cosa scopriremo quando la nebbia si scioglierà». La pensione convento che funge da dormitorio è, per le ragazze, quel ponte che segna il passaggio da una fase della vita a un’altra, è elemento di rottura e insieme collegamento all’estremo del quale, appunto, nessuno torna indietro.
Alba de Céspedes non teme la complessità delle psicologie né la sostanza delle esperienze, gestisce la narrazione con destrezza mostrando di padroneggiare la scrittura in modo consapevolmente moderno. Punti di vista alternanti, flashback improvvisi, tempo del racconto e della storia che spesso coincidono come in una pièce teatrale. L’autrice costruisce i suoi personaggi con l’intento di servirsi di essi come strumenti per mettere in crisi le dinamiche di genere dell’epoca, l’immagine della donna come moglie e mamma ideale confinata tristemente nell’ambito-prigione della vita domestica. Non è un caso che Silvia, la studentessa più brillante che non esita a «consumarsi gli occhi sui testi» sia rappresentata con una duplice accezione, gratificante e positiva per lei, assurda e insignificante per gli altri. Silvia è “bruttina”, “poco femminile”, addirittura «non donna» secondo Andrea Lanziani, fidanzato di Emanuela. La sua posizione di intellettuale è vista come un fenomeno anomalo e imbarazzante che perturba l’immagine in cui le donne sono cristallizzate, fragili e insicure nella loro sottomissione. La stessa Vinca, amica e “compagna di battaglia”, vede la collaborazione di Silvia con lo stimatissimo docente di letteratura come una sublimazione del desiderio erotico: «Lavorare per te è come un surrogato dell’amore tra un uomo e una donna. Ti concedi al lavoro come se ti stessi concedendo a un uomo […]. La tua femminilità si dissolve nel tuo cervello».
Anche il personaggio di Emanuela, cui Alba de Céspedes dedica più spazio, è un incredibile tipo umano pronto a scardinare le assurde teorie del regime mussoliniano. Spedita a Roma dai genitori per nascondere la sua condizione di ragazza madre e intessere così brevi e fugaci incontri con la figlia di cinque anni, la ragazza diviene simulacro delle insopportabili difficoltà di riuscire a «essere completamente se stessa assumendosi le proprie responsabilità di donna e di madre». Prigioniera dell’idea di «come potrebbe nascere un figlio senza padre», Emanuela nasconde alle compagne e al nuovo amore il “peso” di una figlia che pur ama, consapevole delle ripercussioni sociali che, nella società dell’epoca, una tale responsabilità può comportare. Quando conosce Andrea rifiuta di svelare la sua condizione, evitando di incarnare quel modello moderno sacrificale ormai tradizionalmente costruito. Eppure il matrimonio con il giovane l’avrebbe costretta a una vita piatta «scandita dal ritmo del pendolo in casa Lanziani, dal tressette del padre e dal lavoro a maglia con la madre», avvicinandola a quell’ideale di moglie borghese da lei assolutamente detestato. Ecco che, allora, la fine della relazione con Andrea le permette di prendere in mano le redini della sua vita, insieme a quella di sua figlia. Alba de Céspedes costruisce per lei un finale aperto, indecidibile, che dà vita a una serie di ipotesi e decisioni sospese, così come son sospese le vite delle protagoniste che lasciano il Grimaldi con passo incerto ma piene di vita. Emanuela s’imbarca con la figlia su una nave, «distaccandosi così da un contesto che le aveva soffocato libertà e coraggio individuale e trovando la forza di compiere una scelta definitiva […] per diventare una donna nuova consapevole di sé e capace di accettare la sua sofferta maternità come origine e non limite». E così il suo personaggio diventa metafora dell’immagine del ponte, del passaggio, della sponda raggiunta con passo arrancante: «Tutti vorrebbero ricominciare. Ma gli atti che ci hanno accompagnato fin lì sono alle nostre spalle, attraverso la strada, a fare da argine. E indietro non si può tornare, nessuno torna indietro. È la più inesorabile forma di eguaglianza di tutti gli uomini di fronte alle leggi della vita».
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