Nella piccola chiesa di San Francesco a Schio, in provincia di Vicenza, è possibile ammirare la prima opera firmata e datata con certezza di un artista a lungo dimenticato e con ancora alcuni tratti misteriosi: Francesco Verla. Lo Sposalizio mistico di Santa Caterina e santi, del 1512, è una grande pala, straordinariamente conservata e integra, e ancora nella collocazione originale.
A proposito di Francesco Verla
È interessante che la prima opera certa di Francesco Verla sia una pala realizzata intorno ai quarant’anni, motivo per cui la ricostruzione del suo percorso precedente si fa ancora più complessa.
«Ha dunque avuto Vicenza in diversi tempi ancor essa scultori, pittori et architetti, d’una parte de’ quali si fece memoria nella Vita di Vittore Scarpaccia, e massimamente di quei che fiorirono al tempo del Mantegna e che da lui impararono a disegnare: come furono Bartolomeo Montagna, Francesco Veruzio e Giovanni Speranza pittori, di mano de’ quali sono molte pitture sparse per Vicenza».
Giorgio Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze 1568
Vita di Jacopo Sansovino
Il nome di Francesco Verla non si trova propriamente in Vasari, che lo indica invece con il nome di Francesco Veruzio. L’autore lo nomina semplicemente all’interno della vita dell’architetto Jacopo Sansovino, colui che ha trasformato Venezia in una città rinascimentale. Nella storia della sua vita, Vasari si dilunga in un’appendice in cui racconta di vari contemporanei nel contesto veneto. Verla parte però sotto una cattiva stella, perché l’autore era convinto di averne già parlato, ma non è così. Il fatto, tuttavia, che Verla sia approdato, seppur fugacemente, ne Le Vite è in ogni caso indice di una certa fama.
Non si sa nulla della formazione di Francesco Verla. Vasari parla di Mantegna, ma è un’informazione da prendere con cautela. Vero è che a Vicenza, per gran parte del Quattrocento, non c’è una vera e propria scuola pittorica. Le opere presenti sono frutto di presenze quasi casuali di artisti in città. Il primo artista che segna in maniera molto forte e riconoscibile lo sviluppo della pittura a Vicenza è Bartolomeo Montagna, o Bartolomeo Cincani (1449/1450 ca – 1523).
La prima testimonianza documentaria tra quelle fino a oggi raccolte riguardanti Francesco Verla è una menzione in un atto notarile, del 17 dicembre 1499, a Vicenza. «Francesco di Bernardino da Villaverla» compare tra i testimoni di una “pace”. Il documento è utile per ipotizzare l’anno di nascita di Verla: il fatto che nel 1499 egli potesse fare da testimone in un atto notarile significa che era maggiorenne, quindi doveva avere almeno venticinque anni, dunque essere nato prima del 1474, probabilmente non di molto.
Nel 1499 l’artista non doveva essere agli inizi della sua carriera, ma piuttosto affermato, seppur giovane. Il 19 agosto 1500, infatti, a Vicenza riceve una commissione prestigiosa dai Conservatori del Monte di Pietà che richiedono l’affrescatura di tutta la facciata del palazzo del Monte di Pietà a lui e Girolamo Mocetto.
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In un documento del 4 febbraio 1503, Verla compare ancora una volta non in una commissione, ma in un documento giudiziario in cui si dice che il pittore è citato in causa da Pietro Lombardo. Questa carta dà un’informazione preziosa: in questo periodo l’artista è a Roma. Qui Verla non conosce Raffaello e Michelangelo, che vi arriveranno solo qualche anno più tardi, ma Pinturicchio, di cui porta i segni per tutta la sua carriera.
Il carattere fortissimamente peruginesco di Verla al ritorno in patria da Roma intorno al 1504, però, è probabilmente indizio del fatto che il suo viaggio in Italia centrale non si è limitato alla sola Roma. I segni dell’esperienza romana si vedono molto bene, sia nell’allusione al mondo classico, sia nell’utilizzo del repertorio delle grottesche. Ma il sapore peruginesco, dominante nei suoi quadri al momento del ritorno, costringe quasi a pensare ad un soggiorno dell’artista nella bottega di Perugino a Perugia. Soggiorno che forse si può stringere tra il 1501 e il 1502, dunque prima di Roma.
Una volta tornato dal proprio viaggio nel Centro Italia, Verla manifesta sempre di più un nuovo sguardo sulla pittura, che guarda al passato, e in particolare alla seconda metà del Quattrocento. Le pale di Velo d’Astico (1504-05 ca), Vicenza (1508-09) e Schio (1512) sono le opere con cui Verla si afferma in patria al ritorno dal suo soggiorno in Centro Italia.
La pala dello «Sposalizio mistico» di Schio
Lo Sposalizio mistico di Santa Caterina e santi è da considerarsi il capolavoro assoluto del pittore nella cittadina di Schio, dal quale parte la ricostruzione del suo catalogo, visto che è datato e firmato in un cartellino alla base del trono. In più esiste un documento del 2 aprile 1512 nel quale emerge che a commissionare questo dipinto è stato Giangiorgio Dal Soglio, che s’impegna a far eseguire le ultime volontà di sua figlia e di suo genero, Lucia e Giovanni Stefanini, maestro di grammatica. Questi aveva lasciato nel suo testamento 15 ducati per l’esecuzione di una pala all’altare per la cappella intitolata a Santa Caterina d’Alessandria, nella chiesa di San Francesco a Schio. Il 20 giugno Francesco Verla firma e data l’opera. È evidentemente una commissione importante.
L’opera si conserva nella sua interezza, con cornice, lunetta e predella. I riferimenti sono assolutamente perugineschi. La cornice, molto bella, presenta un trionfo di grottesche. Tra la pala e la lunetta c’è una sorta di cornicione, un elemento nuovo anche rispetto agli esempi di Perugino. Qui un gruppo di angioletti danza, gioca. Al centro, uno dei bambini è nella posa benedicente, ed è dunque forse Gesù. Verla da sempre dipinge molto volentieri bambini, in particolare i cosiddetti amorini, o spiritelli, presi dalla tradizione classica greca e romana. La scelta di riempire il cornicione di bambini che giocano, scherzano, non è una cosa che rimanda all’orizzonte di Perugino o Pinturicchio. È piuttosto un rimando a Donatello, quindi esempi più antichi come la cantoria della cattedrale di Firenze o il pulpito della cattedrale di Prato. È un tema che Donatello esporta con grande fortuna nel decennio che passa a Padova, tra il 1443 e il 1453. Il caso più importante in questo senso sono senza dubbio gli angioletti musicanti che Donatello realizza per la basilica del Santo.
Come spesso nelle sue opere, nello Sposalizio mistico Verla è un pittore spiazzante nell’iconografia, introduce elementi insoliti, in particolare negli attributi dei santi. Il quadro, come accennato, è fatto realizzare in ricordo di Giovanni e Lucia, che sono presenti nelle figure dei rispettivi patroni. Santa Lucia tiene in mano un bastoncino d’avorio sul quale sono infilati i suoi occhi e di fronte a lei sta Giovanni Battista. I due santi in secondo piano sono Giuseppe, con un misterioso bambino aggrappato alla sua gamba, e Sant’Agata, con in mano un seno in riferimento al proprio martirio. L’iconografia così particolare di Santa Lucia si ritrova in altri esempi, seppur rari, come in Ambrogio Bergognone negli stessi identici anni. Nella pala, Santa Caterina d’Alessandria rivolge le spalle all’osservatore e il Bambino le prende la mano. Si tratta di una martire dei primi secoli del Cristianesimo, la cui leggenda narra che decise di conservare la propria verginità quando ebbe una visione in cui Gesù Bambino la sposava (sposalizio mistico, appunto).
La predella dello Sposalizio mistico è di tipo moderno, come si usava proprio in Veneto in questi decenni iniziali del Cinquecento: non una predella divisa in scomparti, scenette, ma con un unico scomparto. I vari episodi della leggenda di Santa Caterina si distribuiscono all’interno di un unico, grande paesaggio, in cui si muovono i personaggi. Gli episodi raffigurati sono tre: la disputa; il tentato martirio, con l’angelo che distrugge lo strumento del martirio; la decapitazione. A farla condannare è l’imperatore Massenzio (fine III – inizio IV secolo). Secondo la leggenda, Santa Caterina era particolarmente eloquente, capace di convincere con le proprie argomentazioni e di diffondere quindi la propria religione; ciò aveva infastidito l’imperatore, che fece chiamare filosofi, studiosi da tutto il territorio per disputare con lei. Caterina però li convertì e Massenzio li condannò al rogo. È dunque patrona della cultura.
Nelle paraste della cornice sono presenti e caratteristiche le grottesche, che conferiscono un sapore archeologico all’insieme. Le grottesche sono già di per sé un indizio del contatto con l’ambiente romano, a conferma della cronaca documentaria che vede il pittore a Roma proprio negli anni in cui Pinturicchio scopre e diffonde questo tipo di decorazione.
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L’elemento più chiaramente rivelatore, in questa pala, della strettissima relazione tra Verla e l’opera di Perugino sono gli angeli della lunetta, con il Dio Padre benedicente al centro. Questi, che sembrano speculari l’uno rispetto all’altro, arrivano quasi pattinando in scena, con le mani giunte e i capelli lunghi. È un contatto forte ed evidente. I rimandi a Perugino di questo quadro, sorprendente nel cuore del Veneto, sono stati colti da uno dei più importanti storici dell’arte italiani: Giovanni Battista Cavalcaselle, autore de A New History of Painting in Italy, from the Second to the Sixteenth Century (1864-1866, Londra). Uomo molto impegnato sul fronte risorgimentale, Cavalcaselle era stato esule e si era legato in amicizia con il giornalista inglese Joseph Archer Crowe. Il sodalizio tra i due è stato sugellato dall’uscita dei tre grandi volumi dell’opera. Nel terzo volume, in particolare, si trova un capitolo dedicato agli allievi di Perugino, i cosiddetti pittori perugineschi. Qui citano anche Francesco Verla:
Un modesto pittore dell’Italia settentrionale sul quale Perugino ha esercitato una chiara influenza è Francesco Verla […] Egli è ancora più peruginesco in un quadro con lo Sposalizio di santa Caterina datato 1512, a Schio, presso Vicenza. Il Dio padre benedicente nella lunetta è un’imitazione accurata benché piatta [di Perugino], i bambini sono disegnati nel modo rotondeggiante degli Umbri, come in Gerino da Pistoia […] un altro dipinto caratteristico, benché non firmato, è la Madonna e santi della chiesa di Velo, vicino a Thiene.
Cavalcaselle, con un grande occhio e un’incredibile capacità di collegamento tra le opere, anche lontane nel tempo e nello spazio, riconosce nella lunetta di Schio un chiaro rimando all’opera di Perugino. Nessuno, prima di Cavalcaselle, si era occupato dell’opera di Verla.
La chiesa di San Francesco
La chiesa di San Francesco a Schio è atipica, con una navata centrale e una sola navata laterale. Lungo la navata principale, sotto il tetto a capriate, corre un fregio dipinto ad affresco, che corre lungo tutte e quattro le pareti, opera anch’esso di Verla. C’è una fascia decorata con motivi a grottesche, con bambini che terminano in girali vegetali, a cui si alternano loculi dai quali si affacciano i frati illustri dell’ordine francescano. Le grottesche sono popolate di varie tipologie di volatili, oltre che dai busti di bambini. Tra le capriate lignee si alternano scenette rettangolari con episodi della vita dei santi francescani e altre scenette in cui abbondano i soliti puttini, che diventano un elemento ricorrente e riconoscibile di Verla.
Tutti gli elementi della pala vengono reinventati per questo fregio. Le scene sono dipinte in una maniera veloce, d’effetto, in una pittura nuova per Verla. Sono scene semplici, rese con poche pennellate e con pochi elementi iconografici. È come se, in queste scenette lontane dagli occhi, il pittore si fosse concesso più libertà.
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