Arrivare in teatro, sedersi in poltrona, aprire il foglio di sala e leggere “da Aldolf Hitler” fa un certo effetto. Anche se lo spettacolo che si è entrati a vedere ha un titolo più che famoso ed esplicativo: Mein Kampf. A un secolo dalla sua scrittura, infatti, Stefano Massini, artista associato al Piccolo Teatro di Milano, porta in scena quello che è stato il manifesto di una delle dittature più atroci che l’umanità abbia incontrato. Massini analizza la scrittura del Mein Kampf, la sventra e ne mostra la chiarezza così come i punti oscuri. Ieri la prima replica al Teatro Sociale di Trento.
«Mein Kampf»: il testo
1924, carcere di Landsberg. Un giovane Adolf Hitler, incarcerato a seguito del tentato colpo di Stato del 9 novembre 1923 conosciuto come “putsch della birreria”, detta al compagno di prigionia Rudolf Hess quello che sarà il suo testo programmatico. Le idee contenute nel Mein Kampf sono in tutto e per tutto fedeli e dettagliate rispetto alla visione del mondo, della storia e della politica che Hitler presenterà e metterà in campo quasi un decennio più tardi, dopo essere salito al potere. Pensieri come il superomismo, la difesa della razza, l’antisemitismo, la lotta e la repressione delle opposizioni, l’eliminazione degli individui più fragili in nome di un’idea sbagliata e traviata di eugenetica e darwinismo sociale popolano e arricchiscono di orrore un testo che per anni, dopo la sconfitta del regime nazista, è stato messo al bando per paura di un ritorno (o di una sopravvivenza) di quei concetti. Il testo è attualmente illegale in Austria, Cina e Israele, dove se ne conservano alcune copie per motivi di studio e ricerca.
Solo otto anni ci separano dal 2016, quando allo scadere dei diritti d’autore la Germania riammise la diffusione del testo dopo anni di divieto, ribaltando di fatto la prospettiva e comprendendo che, con lo scorrere del tempo, solo tenendo viva la conoscenza di tali atrocità si potesse evitare il ripetersi della catastrofe. Ed è proprio un’analisi e una rielaborazione spietata di queste parole che Stefano Massini opera, presentandone il potere e le conseguenze talvolta distruttive. Mein Kampf è lo specchio di un popolo, ma più in generale di un secolo, complesso e ricco di contraddizioni. È l’autobiografia dai toni paranoici di un uomo invasato che però è stato in grado di far leva sulle insicurezze e le frustrazioni della gente comune e di mettere così in atto un piano personale spacciandolo come il bene più grande per un’intera nazione e l’unica vera via percorribile. «Le masse sono bambini impauriti», dice Adolf Hitler, che non bisogna convincere razionalmente, ma colpirne il petto, le viscere, fargli capire che, infondo, «siamo così simili», condividiamo le stesse paure e che il nemico, l’estraneo, l’origine delle nostre paure e dei nostri mali è qualcun altro, qualcuno che va sconfitto, sterminato. Mein Kampf è «l’agghiacciante Verbo del Novecento» che sempre di più sembra far sentire vicina la sua eco nel presente.
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Stefano Massini e il libro-manifesto
Stefano Massini ha lavorato a questo spettacolo per anni, da quando vent’anni fa ha assistito a una lezione tenuta da Luca Ronconi alla Scuola di Teatro del Piccolo su Riccardo III di Shakespeare. Lo spettacolo elaborato non si limita a prendere in considerazione il testo del futuro führer, ma incrocia la prima stesura del libro-manifesto con testi e comizi dello stesso e dei suoi fedelissimi Goebbels e Himmler, oltre che con le Conversazioni di Hitler a tavola raccolte da Henry Picker, Heinrich Heim e Martin Bormann.
Quella che Stefano Massini mette in scena è «l’impalcatura del nazionalsocialismo, offerto senza filtri», mantenendo lo stile ossessivo, barocco ed enfatico del testo originario. Il ritmo della recitazione è studiato nei minimi dettagli, così come i toni che si rifanno a quelli ormai divenuti emblematici per la figura del dittatore.
L’importanza delle parole
Se è vero che «le parole sono importanti!», come diceva Nanni Moretti in Palombella Rossa, è altrettanto vero che le parole sono pericolose. Ma lo sono per il semplice fatto che, da presuntuosi impenitenti, gli attribuiamo sempre troppa poca importanza e ci ritroviamo a posteriori a fare i conti con quello che hanno generato. Che sia odio, distruzione o piuttosto amore e bellezza, le parole hanno il peso e il potere di dare forma e modificare la realtà intorno a noi. E questo è messo ben in evidenza dal lavoro che Stefano Massini ha operato su uno dei testi simbolo del potere. In questo senso è evidente come siano proprio le comunità democratiche quelle più a rischio da questo punto di vista, perché sono quelle in cui la parola circola più liberamente, nel bene come nel male. La democrazia è dunque terreno fertile per i due opposti: per la libertà così come per l’oppressione, per la condivisione ma anche per l’incantamento volto al dominio.
Lo spettacolo inizia emblematicamente con un racconto, con la storia di uno scrittore censurato dal regime che, rifiutandosi di fuggire, è stato costretto non solo a smettere di scrivere ma anche ad assistere ai roghi di libri operati soprattutto nel primo periodo della dittatura. È a questo punto che viene introdotta una realtà centrale allo spettacolo ma anche e soprattutto alla lettura della storia: «I nazisti erano loro stessi un libro», il Mein Kampf, appunto. Un libro che ha bruciato milioni di altri libri e ha ucciso milioni di persone. Quelle parole ci fanno ancora paura? Forse no, «ma a farci paura», come dice Stefano Massini, «è probabilmente l’esperimento che si cela dietro a esse, la possibilità che quel libro non sia affatto morto». Le parole sono fatti, tutto prende forma da lì, da una pagina bianca, come quella sulla quale l’attore si muove, agisce, urla, racconta durante tutta la durata della messa in scena. Tutto parte «dalle parole che decidi di usare, di far entrare dentro di te».
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Le parole dettate e poi urlate da Adolf Hitler un secolo fa, tolte dal contesto in cui sono nate e allontanate dagli esiti aberranti e che tutti condanniamo senza remore, sono davvero prive di potere su di noi? Mein Kampf di Stefano Massini è un invito a vigilare intellettualmente e a mantenere un pensiero proprio e libero, in grado di riconoscere le fluide forme del totalitarismo e del controllo, anche quello più subdolo.
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