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Elezioni americane

Harris-Trump: le elezioni americane che pesano sul mondo intero

dalla newsletter n. 44 - novembre 2024

7 minuti di lettura

Abbiamo mai pensato agli occhi con cui ogni quattro anni ci apprestiamo a osservare e analizzare le elezioni americane? Forse sono l’evento politico più seguito, e sicuramente quello che fa più discutere, dal quale dipendono diverse tendenze che hanno ripercussioni nelle parti del mondo più affini e nei Paesi che storicamente si contrappongono allo strapotere politico-economico degli Stati Uniti.

A pochi giorni dalla chiusura della campagna elettorale tra Kamala Harris e Donald Trump, si analizzano gli ultimi sondaggi e si cerca di prevedere gli andamenti di una sfida che è stata più volte stravolta da colpi di scena, tra cambi in corsa dei candidati, dibattiti, attentati e uno scenario internazionale che viene influenzato e, a sua volta, influenza fortemente la competizione elettorale statunitense. Tra tutti, gli attacchi di Israele su Gaza e il potenziale allargamento del conflitto ai Paesi circostanti, come denotato dalla crescita delle ostilità con il Libano e l’Iran, hanno un impatto sul voto democratico. La mancata condanna a trecentosessanta gradi delle violazioni dei diritti umani nel conflitto tra Israele e Palestina ha infatti ripercussioni sul voto della comunità ebraica e dell’elettorato che ha maggiormente a cuore la causa palestinese. Non è un caso che diverse testate giornalistiche e associazioni solitamente legate al voto democratico, non abbiano reso palese il loro endorsement alla candidata dem Harris usando come giustificazione i mancati interventi dell’amministrazione Joe Biden su quanto sta accadendo da poco più di un anno a Gaza.

Sistema Elettorale Statunitense

Il sistema elettorale degli Stati Uniti si basa su un processo indiretto di elezione di Presidente e Vicepresidente, che avviene attraverso il cosiddetto Collegio Elettorale. Tale sistema presenta diverse fasi non di particolare linearità. In ordina cronologico, le fasi del processo elettorale partono con le Elezioni primarie e i Caucous, condotte dai singoli partiti per selezionare i propri candidati. Tali competizioni elettorali di parte possono essere riservate ai soli registrati al voto (primarie chiuse) o aperte alla partecipazione dell’intero elettorato (primarie aperte). Dopo le primarie, i delegati scelti dai singoli territori si riuniscono nelle Convention nazionali dei Partiti per nominare ufficialmente il candidato o la candidata Presidente e il running mate che assumerà la carica di Vicepresidente. Infine, il martedì successivo al primo lunedì di novembre si tengono le elezioni generali nel corso delle quali il corpo elettorale vota per una lista di grandi elettori associati alle figure candidate a coprire la carica di Presidente e Vicepresidente. Il Collegio Elettorale è composto da 538 elettori con ogni Stato che conta un numero di elettori pari al numero di senatori e di rappresentanti alla Camera (in numero proporzionale alla popolazione).

Per vincere servono 270 voti elettorali ottenuti attraverso un sistema in cui, per ogni Stato, si valuta quale dei due candidati presidenti è il più votato. In tutti gli Stati, tranne nel caso del Maine e del Nebraska, vige la regola del “Winner takes all”, regola secondo cui il presidente più votato prende i voti della totalità dei grandi elettori legati al singolo territorio. Tale sistema, le cui peculiarità rendono il sistema americano uno tra i più seguiti dall’esercito di appassionati di elezioni, può rischiare di creare scenari controversi in cui il candidato che risulta vincente non è necessariamente quello che ha ricevuto più voti dai cittadini americani. Tale scenario si è verificato, ad esempio, nel 2000 e, più recentemente, nel 2016.

Altro aspetto di cui si è parlato ampiamente anche nel corso della campagna elettorale 2020 quando si faceva fronte allo scenario pandemico, è il voto anticipato o per corrispondenza. Tale modalità consente agli elettori di votare prima del 5 novembre, data ufficiale delle elezioni, recandosi in appositi seggi o ricevendo per posta una scheda elettorale da compilare e far pervenire all’ufficio elettorale locale entro delle scadenze prestabilite. Tale modalità, oltre a promuovere la partecipazione al voto, problematica molto presente soprattutto nelle minoranze caratterizzate da una maggiore marginalizzazione sociale, riduce le code e i conseguenti oneri nel giorno delle elezioni. Nel 2020, dalla parte dei Repubblicani, il voto anticipato veniva considerato come una minaccia e come uno strumento del “sistema” per boicottare il candidato repubblicano che in fondo era pur sempre il Presidente uscente (è un controsenso, ma non è l’unico delle campagne elettorali americane). Per tali ragioni, i repubblicani boicottarono il voto anticipato venendone ampiamente penalizzati e utilizzarono tale leva come uno degli argomenti a sostegno della tesi delle “elezioni rubate” e del voto falsato che hanno portato all’assalto di Capital Hill il giorno del giuramento del nuovo presidente Joe Biden (6 gennaio successivo alle elezioni), sulla cui istigazione da parte di Donald Trump si discute ancora.

Una cosa che colpisce un qualsiasi osservatore europeo è la differenza tra le elezioni in qualsiasi Paese europeo e quelle negli Stati Uniti. Tra i temi di maggiore risalto, l’aderenza alla realtà del dibattito pubblico, la centralità della comunicazione, così come l’eccessiva etnicizzazione del voto.

Come sta andando la campagna finora?

Le elezioni 2024 hanno visto una corsa che apparentemente doveva essere tra le più statiche della storia, ma che nel corso dell’ultimo anno ha visto una serie di stravolgimenti legati a fattori endogeni ed esogeni.

La prima parte della campagna elettorale si è svolta sul solco di quanto accaduto nelle precedenti elezioni. Joe Biden – Trump era il déjà-vu, la serenità di due schieramenti che a detta di molti analisti non erano ancora in grado di fornire soluzioni nuove, come se fosse una rappresentazione di una potenza mondiale che per un secolo ha spadroneggiato nel mondo intero, ma che oggi è stanca e più restia a rinnovarsi.

Il primo dibattito tra i due candidati in pectore è stato il primo punto di svolta. Joe Biden, politico di lungo corso, già vice di Barack Obama e presidente uscente, è stanco e l’età avanzata non aiuta in una battaglia che si prospetta più dura rispetto alla tornata del 2020. Dall’altro lato, Donald Trump, alla sua terza candidatura, che si presenta ancora una volta come il rappresentante del popolo contro le élite globaliste e woke che, a suo dire, non rispondono ai bisogni degli americani e dell’economia americana, occupandosi di temi “meno importanti” come i diritti e la migrazione (un discorso basato sulla percezione che non sempre collima con la realtà dei dati). È il solito Donald Trump, rampante, sicuro e che porta il dibattito sul terreno dello scontro perché sa che in quel terreno è un passo avanti rispetto al suo competitor. L’uomo forte al comando che molti americani dicono di volere che assume un atteggiamento “iconico” per il mondo conservatore anche quando dopo un attentato che lo ferisce, alza un pugno in cielo in segno di vittoria. Qualche goccia di maschilismo tossico non manca, ma è quello che vuole una parte del Paese.

Davanti a questo scenario, i dubbi tra i democratici non hanno tardato ad arrivare, trapelando nei corridoi e attraverso la stampa. Il Presidente uscente è il candidato naturale, salvo i casi in cui è lo stesso Presidente a fare un passo indietro. Dopo le naturali tribolazioni umane vissute dall’attuale inquilino della Casa Bianca, c’è il colpo di scena: lasciare il passo alla propria Vice, Kamala Harris.

Da quel momento cambia il ritmo della campagna democratica. Kamala Harris tocca altre corde dell’elettorato, ha una comunicazione più incisiva e risponde alle accuse roboanti di Donald Trump con i dati, i numeri e con una retorica che dà insieme sicurezza e novità.  

C’è anche una questione di genere e anagrafica. Mentre i due sfidanti iniziali Joe Biden e Donald Trump sono due maschi bianchi nati rispettivamente nel 1942 e nel 1946, Kamala Harris è nata nel 1964, da madre di origine indiana e padre di origine Jamaicana. Probabilmente non è un dato che dal punto di vista statistico è eccessivamente rilevante, ma sicuramente cambia i toni del dibattito inserendosi in un sistema elettorale eccessivamente etnicizzato in cui i voti delle minoranze contano e in cui l’elettorato si divide per censo, livello di scolarizzazione, etnia e livello di marginalità sociale (che si lega a questioni sia economiche che culturali).

Harris-Trump: too close to call

Con l’avvicinarsi al 5 novembre il dibattito alza i toni, quindi, aumentano le accuse sulle esperienze passate alla guida del Paese, fino ad arrivare alle accuse personali. Donald Trump negli ultimi tempi ha accusato Kamala Harris di irrilevanza durante l’Amministrazione Biden e di essere pronta a far entrare migliaia di immigrati irregolari, accusandola addirittura di volere una terza guerra mondiale. D’altro canto, lui sarebbe pronto a deportare migranti irregolari, abbassare le tasse e ridurre l’inflazione. A parti inverse, Kamala Harris ha accusato Donald Trump di estremismo, di mostrarsi come paladino del popolo essendo un miliardario e di avere idee fasciste (tema non spesso utilizzato nella politica statunitense, ma legato a specifiche dichiarazione di Trump). In contrapposizione, Kamala Harris porta avanti il tema dell’economia, i diritti e la volontà di non far sprofondare gli Stati Uniti in un delirio oscurantista e isolazionista governato da miliardari che giocano a fare gli statisti.

A guardarla così, potremmo non aspettarci nulla di buono, ma sicuramente uno dei temi che colpisce maggiormente è la mobilitazione di star del mondo del cinema e dello spettacolo e di grandi imprenditori, i cui endorsement spostano migliaia di voti.

Se da un lato, Kamala Harris ha schierato star del calibro di Taylor Swift, Beyoncé, Eminem, Bruce Springsteen, Leonardo Di Caprio, oltre alla famiglia Obama; il suo competitor gode del sostegno di Elon Musk (noto per le sue simpatie conservatrici) e il più velato appoggio di Jeff Bezos, emerso in seguito al mancato endorsement del Washington Post, di cui è editore, alla candidata Dem.

Al momento però possiamo solo basarci su stime e sondaggi che danno il leggerissimo vantaggio Kamala Harris sui dati generali, ma un altrettanto leggero vantaggio di Donald Trump nei cosiddetti Swing States che storicamente non hanno una connotazione politica eccessivamente schierata e sui quali si gioca l’intera partita.

La partita è aperta e, in piano stile americano, queste elezioni sono ancora Too close to call.  


Illustrazione di Lucia Amaddeo

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Giuseppe Vito Ales

Classe 1993. Cresciuto tra le montagne di Piana degli Albanesi, sono un Arbëresh di Sicilia profondamente europeo. Ho studiato economia, relazioni internazionali ed affari europei tra Trento, Strasburgo, Bologna e Bruxelles per approdare infine a Roma. Tra le grandi passioni, la politica, l’economia internazionale e i viaggi preferibilmente con uno zaino sulle spalle e tanta voglia di camminare.
Credo che nel mondo ognuno di noi possa contribuire al miglioramento della collettività in modo singolare e specifico, proprio per questo non mi sta particolarmente simpatico chi parla per frasi fatte o per sentito dire e chi ha la malsana abitudine di parlare citando pensieri e parole d’altri. Siate creativi, ditelo a parole vostre!

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