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Alluvione in Emilia-Romagna: cosa non ha funzionato?

Per la terza volta in un anno e mezzo, la Romagna si è trovata sommersa dall'acqua. Cos'è andato storto con le attuali misure di prevenzione e di messa in sicurezza? Lo abbiamo chiesto al geologo Giulio Torri

5 minuti di lettura

Nel giro di poco meno di un anno e mezzo, Faenza (RA) è stata colpita per la terza volta da un’alluvione, insieme ad altre città dell’Emilia-Romagna che ne hanno subìto gravemente i danni. Dopo quelle del maggio del 2023, in cui 17 persone persero la vita, tra mercoledì e giovedì della scorsa settimana si sono ripresentate esondazioni, rotture di argini, frane, allagamenti, colpendo in molti casi le aree già compromesse dagli eventi dello scorso anno. Nel mezzo delle polemiche partitiche, tra il rimbalzo delle responsabilità tra governo e amministratori locali, stillicidi burocratici, accuse di ritardi e malagestione del territorio, ad essere tralasciata è la conoscenza di una pianura alluvionale, dei suoi ecosistemi fluviali, della sua fragilità e della sua potenza, che dovrebbe portare in causa una riflessione impegnata sull’abitare. Tra bonifiche storiche e sfruttamento di suolo, il nostro rapporto con l’ambiente – le sue possibilità e i suoi limiti – emerge come una questione forse più radicale delle responsabilità della gestione amministrativa, pur rilevante per le conseguenze subìte. Giulio Torri, geologo emiliano-romagnolo, ci aiuta a capire come le politiche urbanistiche potrebbero meglio fare i conti con la sicurezza idraulica e idrogeologica delle città: cos’è andato storto con le attuali misure di prevenzione e di messa in sicurezza?

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Faenza (RA), foto di Ilaria Mohamud Giama

Il nostro modello di territorio andrebbe radicalmente ripensato e, sì, molte cose andrebbero delocalizzate. Nel senso che si dovrebbe dare più spazio al sistema “naturale”, piuttosto che a quello antropico: quando ci ritroviamo davanti a fiumi estremamente ridotti nel loro alveo, privati dentro argini stretti e alti, il rischio aumenta notevolmente e il caso di Traversara ne mostra le conseguenze dirette. Fintanto che si ragiona sul modello dei cerotti, rinforzando un argine qui e uno là, il rischio non si mitiga, l’esondazione o la rottura di argini si sposta solo di qualche chilometro. Il rischio non è un concetto astratto, ma è una funzione di tre fattori: la pericolosità, la vulnerabilità, e l’esposizione. L’esposizione riguarda i beni, le case, ciò che è esposto al danno, e quindi lo aumenta. La pericolosità invece la fragilità del territorio, ed è direttamente correlata al cambiamento climatico: stiamo vivendo degli eventi con un tempo di ritorno ultrasecolare che compaiono tre volte in un anno e mezzo, in appena sedici mesi. Ultimo fattore: la vulnerabilità – è quanto siamo disposti a sopportare l’affacciarsi della pericolosità. Sommate tre variabili, otteniamo un rischio estremamente elevato. Per questo è meglio abbandonare l’idea di interventi puntuali: ci vogliono interventi organici.

Il sistema va profondamente ripensato, lavorando in maniera integrata e sistemica, dalla sorgente alla foce. Mai interventi isolati. Certo, gli argini vanno ripristinati, ma il dissesto idrologico “si mitiga” (con la natura “non si combatte”, ne facciamo parte) andando ad intervenire su tutta l’asta fluviale.

In questi giorni l’imbuto della mala informazione va a finire sul disastro a valle, sulla foto del legname, la diga di tronchi di Boncellino: è fuori discussione che quella legna non doveva esserci, ma da geologo il vero scandalo è quella sezione di fiume così minuta, veramente ridotta; il ponte che è praticamente interno agli argini; e adiacenti agli argini ci sono perfino case. Qui c’è il problema.

Faenza (RA), foto di Ilaria Mohamud Giama

Purtroppo di quei decenni ci trasciniamo ancora due grosse eredità: anzitutto un’espansione edilizia spesso non oculata, e la sua regolamentazione che è arrivata in ritardo, quando già stavano tramontando gli anni del boom economico e dell’edilizia incontrollata, tra 1950 e il 1980. In secondo luogo, le grandi escavazioni di sabbia e ghiaia direttamente dai letti dei fiumi di quegli anni, che pure hanno aggravato il dissesto idrogeologico, e sconvolto gli equilibri degli ecosistemi. In poche parole: si abbassa il letto fluviale, gli le sponde si destabilizzano, aumenta la velocità del flusso, e in quelle aree naturali che consentivano al fiume di espandersi in caso di piena, ora ci sono edifici. Su Faenza avevo fatto un foto-confronto tra il 1954 e il 2023: sì, nelle zone artigianali e residenziali a sud del Faenza una volta c’erano campi e frutteti.

Ne approfitto per fare un po’ di divulgazione: purtroppo c’è un’idea comune del fiume come di una fogna. Si sente dire che sabbia e ghiaia vanno dragate, ma dragando i fimi distruggiamo noi stessi. I fiumi sono i costruttori delle nostre spiagge. In quegli anni, la canalizzazione e le operazioni di dragamento sono andate di pari passo all’aumento del rischio. Il fiume è un ecosistema, è un ambiente geologico sedimentario e idrogeologico complesso. Ora viene invocata la “pulizia dei fiumi” come fosse una panacea di tutti i mali. Quando cascano 350 millimetri di pioggia in 48 ore, pensare che nemmeno un tronco di legno caschi dentro il fiume è allucinante: non possiamo pensare di avere un controllo totale sulla natura. Le operazioni devono essere sistemiche. C’è una metafora: il lavandino può essere perfettamente pulito, ma se ci verso dentro un’autobotte, questa si sversa fuori in ogni caso.

Sul discorso invece della pulizia degli argini, bisogna essere precisi. In certi casi va rimossa, in altri va mantenuta per difesa idraulica. Si procede caso per caso, non si può generalizzare. Tanti vorrebbero dei canali cementificati: così facendo si prepara la strada da corsa a una palla da biliardo che non appena arriva la piena, anziché arrivare a Bagnacavallo, arriva nel Po direttamente – per estremizzare.

A livello generale, significa un allargamento. È un aspetto tecnico complesso: da un punto di vista idrogeomorfologico, i nostri fiumi sono pensili, il loro alveo è più alto rispetto alle pianure circostanti. Decine di migliaia di anni fa, quando non c’erano argini artificiali, i fiumi divagavano creando i loro stessi argini (si chiamano “argini per se stessi”). Lasciare spazio ai fiumi è tecnicamente una pratica che si chiama “rinaturazione”, rinaturazione del corso d’acqua. Riguarda tutto il corso d’acqua in maniera integrata, la sua complessità, si valutano molteplici fattori, spesso sono modelli unici per ogni corso d’acqua: quello che faccio in un fiume potrebbe non essere replicabile altrove. In Emilia-Romagna abbiamo dei fiumi e torrenti costretti in percorsi antropici che per settant’anni hanno retto, ma che ora non riescono più a reggere le piogge eccezionali.

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Faenza (RA), foto di Ilaria Mohamud Giama

Progetti non ci sono. Ci sono delle bellissime linee guida, che al momento non hanno un diffuso riscontro pratico. Insomma, le conoscenze ci sono, manca la volontà tecnica e politica. Abbiamo perfino le simulazioni sulle piene cinquecentennali del Po, con scenari apocalittici. Se non ci adoperiamo, le cose andranno sempre peggio.

A volte è difficile fare capire a delle persone che hanno vissuto in un modo per cinquant’anni, che quel modo è sbagliato.

È una questione complessa. Pensiamo agli impianti di sollevamento acque: sono essenziali, sono bonifiche. Il problema riguarda la gestione del reticolo di scolo, come lo contestualizzo, perché l’acqua da qualche parte deve andare. Se la rete di scolo è insufficiente, il danno arriva – nel 2023, ventitré corsi d’acqua sono fuoriusciti.

Se il consumo di suolo e la cementificazione non sono seguite da misure per alleviare l’operazione, togliamo parte del cosiddetto suolo permeabile, e la pioggia finisce direttamente nello scolo. Aggiungiamo la crisi climatica, in due giorni piovono tre quintali e mezzo per metro quadrato, i risultati sono quelli che vediamo. Ci troviamo a fronteggiare questi eventi, ed è dura. Bisogna ripensare il quadro generale, le linee guida ci sono.

Intervista a cura di Linda Dalmonte e Ilaria Mohamud Giama

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