Fino al 23 settembre 2024 sarà visitabile negli spazi di Fondazione Prada a Milano la massiccia retrospettiva di Pino Pascali, esponente dell’arte povera. La mostra, divisa in quattro sezioni, ripercorre la storia delle più importanti esposizioni dell’artista, sia personali che all’interno di mostre collettive come Fuoco Immagine Terra Acqua del 1968 presso la galleria L’Attico. L’allestimento, a cura di Mark Godfrey, presenta poi una selezione di opere dell’artista divise per il tipo di materiale utilizzato; infine, viene mostrato il profondo legame che per Pino Pascali unisce fotografia e opera. La mostra occupa gli spazi inferiori e superiori del Podium, la galleria Sud e la galleria Nord.
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Giocare con le superfici
Pino Pascali (1935-1968) ha apportato nella storia dell’arte povera un contributo innovativo. Nel suo lavoro emerge l’originalità nell’utilizzo dei materiali industriali. Nella sezione Materiali, al primo piano del Podium di Fondazione Prada, si evidenzia proprio questo aspetto. Le sale, organizzate appunto per il tipo di materiale utilizzato, affiancano alle installazioni dell’artista di una selezione di illustrazioni pubblicitarie degli anni Sessanta dove vengono sponsorizzati proprio questi nuovi prodotti industriali: pelliccia finta, plastica, eternit. Pino Pascali sfrutta questi materiali per le proprie opere, creando illustrazioni dal gusto surrealista. Ne è un perfetto esempio Bachi da setola del 1968 (presente in mostra), dove Pascali piega le setole delle scope per formare dei lunghi bachi da seta. Questo tipo di operazione ha uno spirito ironico e una dimensione ludica, tuttavia il messaggio veicolato dai suoi lavori a volte ha uno spirito più complesso: nella serie Armi, Pino Pascali trasforma gli strumenti della guerra e della violenza in simboli del gioco infantile, realizzando delle armi dall’aspetto surreale totalmente inutilizzabili, ridicolizzando così l’idea di potenza e monumentalità associata alle armi da fuoco.
Pascali non lavorava sull’associazione di materie, ma già sulla rappresentazione. Aveva un’idea metalinguistica dell’arte, che ha anticipato anche l’oggettistica degli anni 89-90 con i suoi cannoni, queste armi giocattolo, come direbbe Picasso, puntate sul mondo.
Achille Bonito Oliva
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Dalla Tartaruga all’Attico di Fabio Sargentini
Io tendevo per la mia natura psicologica a creare dei sodalizi onnipotenti con gli artisti, e il primo sodalizio onnipotente fu con Pino.
Fabio Sargentini
Al piano terra del Podium vengono ricreate alcune delle più importanti personali di Pino Pascali. Gli ambienti allestitivi ricreano le dimensioni originali delle gallerie dove Pascali ha esposto, consentendo così ai visitatori di immergersi nelle sue modalità di esposizione non convenzionali. Di queste mostre, due sono allestite nell’Attico di Piazza di Spagna di Fabio Sargentini, entrambe nel 1966. Tra l’artista e il direttore il legame è molto profondo fin dal primo incontro, tanto che sarà proprio Pino Pascali a suggerire lo spostamento della galleria da Piazza di Spagna ad una realtà nuova e unica, un modello di spazio espositivo che poi si sarebbe trapiantato in tutto il mondo: il garage. In un documentario realizzato da Fabiana Sargentini, figlia di Fabio, il direttore dell’Attico racconta:
Rileggendo il lavoro di Pascali sono andato ad aprire una galleria in un ex garage (..) c’è stata una fortissima presa di coscienza in quel momento: lo spazio si doveva dilatare ed uscire da un ambito borghese e contemplativo di appartamento e rompere questo argine della galleria strutturata in maniera contemplativa me l’ha fatto capire Pino.
Sargentini racconta di aver cercato il nuovo spazio proprio con l’artista, ma i lavori di trasferimento vengono interrotti quando l’11 settembre 1968 Pino Pascali rimane ucciso in un terribile incidente automobilistico. L’Attico ferma i lavori per un anno, per inaugurare poi in via Cesare Beccaria con la performance Dodici Cavalli di Jannis Kounellis nel 1969.
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Il legame con la fotografia
Nella galleria Sud viene presentato il rapporto tra Pascali, le sue installazioni e la fotografia. Attraverso gli scatti di fotografi come Claudio Abate, Ugo Mulas e Andrea Taverna, si osserva come Pascali volesse quasi riprodurre con il proprio corpo l’essenza delle opere create posizionandosi davanti alle sue installazioni, interagendo con esse, oppure ancora imitandone la forma. Quattro opere – 32 mq di mare circa (1967), Vedova blu (1968), Cinque bachi da setola e un bozzolo (1968) e Cavalletto (1968) – sono esposte accanto a quattro gigantografie che lo vedono imitare a carponi le zampe di un ragno, simulare la forma di un cavalletto a testa in giù, strisciare fra l’erba assieme ai bachi da setola o saltare fra le vasche di metallo piene d’acqua di 32 mq di mare circa.
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Quelle immagini non erano semplicemente documentazioni di performance né istruzioni su come interagire con le opere. Servivano principalmente a due scopi. Primo, come materiali promozionali, poiché gli editori iconografici, decidendo come illustrare le pubblicazioni, trovavano quelle immagini più accattivanti rispetto alle foto formali e composte che documentavano le mostre di altri artisti. Secondo, offrivano spunti al pubblico di Pascali, suggerendo modi insolitamente inventivi e ludici per rapportarsi a una mostra.
Mark Godfrey
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In copertina: Immagine della mostra Pino Pascali, foto di Roberto Marossi, courtesy di Fondazione Prada