Molti si ricorderanno della campagna pubblicitaria che Demna Gvasalia, stilista e direttore artistico di Balenciaga, organizzò nell’autunno 2022 proprio per la maison spagnola come una delle più scandalose – e sicuramente delle più criticate – del mondo dell’alta moda. Fotografare dei bambini in camerette colorate, ma al contempo piene di accessori erotic-punk dagli espliciti riferimenti alle pratiche BDSM, non poteva di certo passare in sordina – o forse l’obiettivo è sempre stato quello di far parlar di sé a tutti i costi? Chi può dirlo. D’altro canto, si sta parlando di una casa di moda nota per il suo carattere irriverente, anticonformista e per la sua vocazione volutamente provocatoria (anche a costo di venir bollata come “politicamente scorretta”). Eppure il caso di Balenciaga non è l’unico che le passerelle ricordano, perché a scandalizzare il pubblico ci pensò, quarant’anni prima, il fortunato sodalizio tra Oliviero Toscani e Benetton.
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Ma chi è Oliviero Toscani?
Oliviero Toscani nasce nel 1942 ed eredita la passione per la fotografia dal padre Fedele, primo fotoreporter del Corriere della Sera. Nel 1965 si diploma in fotografia alla Kunstgewerbeschule di Zurigo per intraprendere, poco tempo dopo, una fortunata carriera nella pubblicità. I primi scatti risalgono alle collaborazioni con Algida e pian piano viene notato da brand sempre più grossi (le maison Valentino, Robe di Kappa, Fiorucci, Chanel ma anche Toyota, Snai e persino il Ministero del Lavoro e della Salute).
Ma è con Benetton che, negli anni Ottanta, consacra definitivamente il suo stile. Per l’azienda tessile italiana realizza gli scatti più iconici – Donna che allatta, Angelo e diavolo, Manette, Cavalli, Cuori – tutte opere che gli permettono di accostare alla sua indole da fotografo quella da reporter. Toscani, infatti, non si limita a pubblicizzare i prodotti venduti dai marchi più in voga, anzi, utilizza questi ultimi per denunciare le situazioni più atroci e fornire uno spaccato di vita vera.
Ed è proprio sulla base di questo ideale che realizza spot incentrati sulla questione del razzismo, di cui si ricordano le iconiche immagini di modelli e modelle di differente carnagione che, con i loro corpi, andavano a creare sfumature cromatiche dal forte impatto visivo. Negli anni Novanta la sua attenzione si dirige verso temi ancora più crudi: erano gli anni dell’“epidemia” di HIV, della guerra in Kosovo, dei delitti di mafia. Tutti elementi di cui Oliviero Toscani si fa portavoce negli innumerevoli scatti che ritraevano campi ricolmi di croci bianche, vestiti per bambini insanguinati e preservativi volanti per incentivare il sesso sicuro (ovviamente colorati, come ogni classico spot Benetton che si rispetti!). Ma è verso i primi del 2000 che, tramite la sua arte, sfida i limiti dello spettatore – e anche del marchio d’abbigliamento, che più tardi deciderà di interrompere i rapporti – ritraendo volti di condannati a morte nelle carceri statunitensi. Giovani e anziani, neri e bianchi, audaci e timorosi, tutti diversi l’uno dall’altro ma comunque uguali davanti alla legge e alla morte. Lo scopo di Toscani per la campagna Primavera-Estate 2000 era quello di sensibilizzare lo spettatore/cliente sulle condanne capitali «affinché nessuno, in qualunque parte del mondo, possa considerarla un problema lontano, una notizia che ogni tanto si ascolta distrattamente in tv», come si legge nell’archivio online di Benetton.
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Lo shockvertising
Perché Oliviero Toscani sceglie come medium comunicativo proprio un brand d’abbigliamento, per di più con un target family friendly? Da Balenciaga, come descritto più su, ci si aspetta pure una campagna al limite della depravazione, ma da un marchio che confeziona felpe colorate e capi basic proprio no. Ebbene, il motore di una tale decisione consiste, con molta probabilità, in una delle più acute intuizioni in ambito artistico: creare qualcosa di talmente impattante, da rimanere per sempre impresso nella mente di chi guarda. E in questo Toscani è un vero maestro, pioniere di quella tecnica nota ai molti come shockvertising.
Il termine anglosassone – nato dalla fusione di “shock” (cioè urto, impressione violenta) e “advertising” (pubblicità) – viene usato per indicare quelle réclame che hanno l’obiettivo di colpire il pubblico con contenuti dalla forte incidenza emotiva. In genere a rimanere impresse sono proprio le immagini particolarmente crude, cruente, macabre; oppure indisponenti, polemiche e addirittura blasfeme. L’intento è quello di violare deliberatamente le norme morali, sociali, religiose, politiche e di far leva sui tabù spesso occultati. Il tutto per catturare l’attenzione del destinatario, innescando in esso sentimenti empatici in modo da indurlo a riflettere su un determinato argomento o, come accade nel marketing, orientare una sua decisione.
Si tratta di una pratica piuttosto controversa, tanto da rasentare condanne penali. Per metterla in pratica, infatti, non basta semplicemente provocare il pubblico, anzi, bisogna conoscere a fondo il proprio target e comunicare con esso in modo onesto e coerente la mission dell’azienda.
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L’orrido nell’arte
Toscani fa dunque del brutto una costante essenziale dei suoi scatti: l’orrido diviene la sua cifra stilistica più identificativa e, con questo, dimostra quanto sia grande il suo debito nei confronti dell’arte d’Avanguardia. Il suo operato, infatti, viene ampiamente anticipato da artisti che lungo il corso del XX secolo si sono immolati per abbattere i classici canoni estetici e aprire le porte alla libertà creativa.
È il caso di Heinrich Lossow, autore de Il peccato (1880) e di numerosi altri quadri con i quali denuncia la corruzione ecclesiastica (tra l’altro richiamato dal celebre Prete e Suora del fotografo milanese). O dei pittori postimpressionisti come Lautrec, che hanno avuto il coraggio di rappresentare la forza erotica dei corpi umani. Marcel Duchamp, Ernst L. Kirchner, Egon Schiele, Otto Dix ma anche Damien Hirst, Ron Mueck, Paul McCarthy e ancora Vito Acconci, Gina Pane, Marina Abramović: autori e autrici che hanno decostruito il significato stesso dell’arte abbattendo quella linea sottile che la separava dalla vita e immergendo, al contempo, la vita nell’esperienza estetica.
È in questo continuo dialogo tra arte e vita – un dialogo in cui si intrecciano talmente tra loro da non poter distinguere più la finzione dalla realtà – che si insedia la produzione di Oliviero Toscani. Una produzione chiaramente divisiva, criticata da chi vi intravede una forma di strumentalizzazione dei temi più attuali e apprezzata da chi, invece, ne coglie il senso etico.
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Rachele Liuzzo
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