Il poeta inglese Wystan Hugh Auden definì Franz Kafka il «Dante del XX secolo», mentre Gabriel García Márquez, conclusa la lettura de La metamorfosi, disse di aver capito che si sarebbe potuto «scrivere in modo diverso». A cent’anni dalla sua morte, Kafka continua a influenzare il pensiero e la sensibilità artistica moderna, figurando come idolo novecentesco. Per quanto il mondo letterario come quello teatrale, musicale e cinematografico si siano a più riprese immersi nel “kafkiano” (si pensi, ad esempio, al film K (1953) della regista italiana Lorenza Mazzetti, fondatrice del “Free cinema”, o a Intervista (1987) di Federico Fellini, nel quale il regista finge di star realizzando una trasposizione del romanzo America), questi tentativi non rimangono che rapide bozze d’una sagoma statuaria e colossale, destinata a sopravvivere ai secoli. L’enigmaticità del personaggio, la sua aurea metafisica ed ermetica tracciano infatti grandi ombre sulla persona di Kafka: chi è l’uomo che troviamo al termine di quel braccio piegato, sporco d’inchiostro, che scrive perché «questa carta bianca non vuole finire, fa bruciare gli occhi»? Cosa racconta, se si racconta, l’animo dietro a quel viso di spigoli ed occhi affilati?
Le parole più sincere su sé stesso Franz Kafka le dona a Milena Jesenská, giornalista e traduttrice ceca, ma soprattutto passione travolgente, amata «come il mare ama un sassolino sul fondo». Nonostante la relazione duri meno di un anno, Kafka scrive a Milena oltre centotrenta lettere, intima feritoia dalla quale osservare l’animo dello scrittore, per saggiarne la forma e la consistenza eteree ad un secolo dalla sua scomparsa. Come un mare che, poggiandosi su di un sassolino, e con dolce lambire, racconta di sé.
Per Kafka, scrivere lettere significa «denudarsi davanti ai fantasmi che ciò attendono avidamente». È un’attività che confessa di odiare, e a cui addirittura imputa «tutta l’infelicità della vita». Eppure, Kafka scrive a Milena quotidianamente, aprendosi a lei con una franchezza disarmante, come se quella corrispondenza, nata da una richiesta formale di Milena di tradurre in ceco Il Fochista, costituisse soprattutto uno spazio privilegiato entro il quale giocare all’introspezione. Kafka sembra chiedere a Milena di scavare entro il suo animo, smuovendo il pulviscolo di cripticità che ne ricopre le superfici, perché in fondo «amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso». E questo coltello Franz Kafka lo pianterà quanto possibile in fondo, perché oltre alle numerose lettere che le scriverà, a Milena Jesenská andranno anche tutti i suoi diari, consegnati a lei nel 1921 con la promessa di non vederseli restituiti. Se pensiamo che nel 1923, a pochi mesi dalla sua morte, Kafka chiederà all’amico fidato Max Brod di bruciare la maggior parte dei suoi scritti, diventa chiaro come Milena abbia un’influenza unica e irripetibile sullo scrittore, normalmente restio nel farsi leggere. Proprio in una lettera a Max Brod, parlando di Kafka, Milena dirà:
Lei chiede come mai Franz abbia paura dell’amore e non abbia paura della vita. Io penso invece che non sia così. La vita è per lui qualcosa di totalmente diverso che per tutti gli altri uomini.
Nondimeno, della corrispondenza di Gustave Flaubert, che Kafka legge più volte con ammirazione, lo scrittore boemo afferma di sentirsi attratto, quasi ossessionato dall’idea di condividere con l’autore francese la convinzione che «quanto a noi, vivere non ci riguarda». A riprova di questo distaccamento, di questa torre d’avorio esistenziale nel quale Kafka si sente rinchiuso, forse dopo aver egli stesso buttato le chiavi, vi è questa frase lasciata cadere distrattamente, in cui si rivolge a Milena come a un essere distante, ontologicamente irraggiungibile: «Tu che vivi vivamente la tua vita fino a tali profondità».