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Se la politica rivuole la leva. La trappola della coscrizione obbligatoria

Puntuali come le influenze, tornano in ogni stagione le proposte di reintrodurre la leva obbligatoria. Ma dove nasce la coscrizione, e perché oggi non ha più senso?

5 minuti di lettura

Il fatto che i giovani non dedichino una parte della loro vita alla patria proprio non va giù in alcuni ambienti della politica e dell’elettorato. È del 12 maggio, non a caso dall’adunata degli alpini (corpo attivissimo anche in ambiti civili e circondato dall’affetto della popolazione, ma pur sempre militare), l’ennesimo rilancio di una forma di leva militare da parte di Matteo Salvini.

La Lega starebbe infatti preparando una legge su base regionale, non necessariamente in ambito militare, un «grande progetto di educazione civica» che obblighi ragazze e ragazzi italiani a svolgere attività di «salvataggio, protezione civile» et similia per sei mesi. E se anche il ministro della difesa Guido Crosetto esclude le forze armate da questa faccenda, nel suo stesso partito c’è chi sarebbe entusiasta all’idea di riprendere a insegnare ai diciottenni a usare le armi e a sottomettersi alle dinamiche tossiche delle caserme. Perché i giovani andrebbero «educati ai doveri e non solo ai diritti» (educazione ai diritti? Dove bisogna firmare?).

Non dimentichiamo inoltre che la Lega ha appena candidato alle elezioni europee un generale. Insomma, c’è un odore strano dell’aria, se non di polvere da sparo almeno della sottile volontà di obbligare qualcuno a fare qualcosa, per il cosiddetto bene della nazione.

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Un po’ di storia sulle leve di massa

Sono progetti che smascherano il ruolo che le leve di massa hanno avuto dopo la loro nascita, per tutto l’Ottocento e il Novecento. Non che prima non ci fossero fasce di popolazione costrette ad andare a combattere, ma i governanti preferivano rivolgersi a professionisti come i mercenari e la nobiltà, provvista dei mezzi economici per armarsi bene in autonomia. Fu solo dal XV e XVI secolo, con la necessità di avere grandi eserciti permanenti, che le monarchie nazionali iniziarono a sfruttare regolarmente i sudditi per colmare le fila.

A partire dal Settecento, con la nascita dell’idea di nazione e la sua affermazione nell’Europa definita dalla Pace di Vestfalia (1648), si iniziò a concepire la difesa dello Stato come uno dei doveri di ogni cittadino maschio. Nella Francia rivoluzionaria del 1793, in guerra con il resto del continente, si stabilì la leva obbligatoria per tutti gli uomini tra i 18 e i 25 anni, coperta dalla retorica della difesa delle conquiste sociali e politiche; la coscrizione si stabilizzò sul piano legale nel 1798, con l’imposizione di una leva quinquennale per tutti i cittadini tra i 20 e i 25 anni – con la possibilità di farsi rimpiazzare da un sostituto per gli appartenenti ad alcuni ceti.

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A partire dal 1813 anche in Prussia, regno militarista per eccellenza, i cittadini furono sottoposti a una leva obbligatoria triennale, dopo la quale restavano riservisti (quindi richiamabili alle armi in caso di necessità) per alcuni anni.

Nel Piemonte savoiardo i militari professionisti erano affiancati da riservisti di leva, la cui permanenza nell’esercito e come riserve era stabilita con un sorteggio. L’Italia unita del 1861 si avvalse dello stesso sistema, sostituito dieci anni dopo da una leva obbligatoria prima quadriennale, poi triennale e infine, dal 1909, biennale. La Prima guerra mondiale rese necessario richiamare alle armi tutte le classi di leva fin dal 1874, per un totale di 5,9 milioni di uomini. Non ci si poteva aspettare inversioni di tendenza da parte del regime fascista, della cui retorica il concetto di cittadino-soldato era parte fondante. Il servizio militare rimase anche nella Costituzione italiana del dopoguerra, anche se nel 1972 fu introdotto il servizio civile – di durata maggiore rispetto a quello militare fino al 1989 – come alternativa per gli obiettori di coscienza. La legge che sospendeva la leva militare in Italia risale al 2001.

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Leva obbligatoria: un’alternativa?

La leva obbligatoria (o grande progetto di educazione civica, il concetto non cambia) fa parte della retorica dello Stato ottocentesco: si è degni cittadini solo se si dedica del tempo alla Patria, sacra e superiore ad ogni altro impegno. Torna nelle bocche di troppi, regolare come il passo cadenzato di un battaglione in marcia, ogni volta che le idee sembrano esaurite. Sarebbe utile, da membri della società civile, riflettere sulle motivazioni di questa ossessione.

La leva obbligatoria non risponde solo alla necessità di avere uomini in armi quando bisogna fare la guerra, ma permette alla nazione di far passare ognuno per una strettoia ideologica sotto il suo controllo, pregna di indottrinamento. Questo va a favore sì dello stato come entità storica e territoriale ma anche di chi controlla l’informazione e le forze armate in quel momento. Se i cittadini non sono più obbligati a servire lo Stato, allora sfuggono dal suo controllo.

Un simile collante poteva avere un senso negli scorsi due secoli, quando le nazioni andavano create e affermate nello scenario internazionale e le logiche della guerra richiedevano tonnellate di carne da cannone. Nel mondo degli eserciti ipertecnologici quale può essere il senso di una leva se non un puro fattore ideologico?

Non è un mistero che la politica e una parte della popolazione abbiano la percezione che i giovani non posseggano né senso civico né attaccamento alla patria. Sembra che siamo privi di spina dorsale e di interesse per gli altri. C’è da chiedersi cosa siano il senso civico e l’amor di patria secondo i sostenitori di questa linea di pensiero – che, per inciso, propongono ben poche soluzioni alternative alla coercizione. Città più vivibili? Condizioni lavorative dignitose? Non se ne parla nemmeno, ché simili vezzosi orpelli rischiano di indebolire la stirpe italica.

Che lo riaccendano loro l’amor di patria, riportando i giovani a votare con programmi in cui difendono i nostri interessi e dando il buon esempio. Che siano loro i primi ad amare la patria coi fatti e non solo a parole. È forse il senso di colpa a parlare? La consapevolezza di non essere capaci di aprirsi al dialogo, rifugiandosi dietro alla barricata del gap generazionale?

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La soluzione non è la leva, di nessuna natura. Non lo è perché le difficoltà che i giovani affrontano sono di ben altra natura, legate ad esempio al fatto che le iniziative di vero senso civico vengono represse dalle autorità. Non lo è perché siamo penultimi in UE per la quota di 25-34enni in possesso di un titolo di studio terziario (dato di marzo 2023). Non lo è perché siamo l’unico paese europeo in cui i salari reali sono scesi. Non lo è perché da una parte si denunciano i rischi di un pensiero omologato agli standard dei social ma l’unica soluzione proposta è un sistema di obbligo e obbedienza. Non lo è perché il servizio civile esiste già, e forse sarebbe il caso di trovare prima una soluzione alle poche candidature e ai salari da fame.

Ogni coscrizione di massa riguarda un’idea di Stato dalla quale ci stiamo inesorabilmente allontanando, per quanto questo possa dare fastidio ad alcuni (non sempre per colpa loro). I giovani senza senso civico chiedono ogni giorno una risposta alle loro necessità, trovandosi regolarmente davanti a porte sbattute in faccia e cantilene su quanto fossero migliori i loro coetanei di trenta, quaranta, novant’anni fa, con un moschetto e un “Me ne frego!” dentro al cuor. Non abbiamo bisogno di più gente capace di usare le armi né di gente educata ad obbedire e basta, ma di rifare tante cose da capo a misura di umano. Forse non è troppo tardi, neanche per questa strana patria.

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Daniele Rizzi

Nato nel '96, bisognoso di sole e di pace. Sono specializzato in storia medievale, insegno lettere alle medie. Mi fermo sempre ad accarezzare i gatti per strada.

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