In prossimità del 25 aprile e dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo, annualmente si aprono scontri tra i diversi fronti politici che guardano a questa giornata e alla memoria che porta con sé. Anche quest’anno non è stato da meno. La cancellazione da parte della Rai della riflessione sul fascismo a cura del celebre scrittore Antonio Scurati ha riaperto un dibattito molto caldo, sull’importanza di non relegare ai libri di storia la memoria di una delle pagine più buie dell’Italia e su quanto la riflessione sull’importanza della Liberazione non sia ancora riconosciuto come valore fondamentale e condivisibile, trasversalmente dalla propria posizione politica.
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“Fascismo” e “fascismi”: non solo una questione linguistica
Se aprissimo una pagina di un dizionario, la prima voce relativa a “Fascismo” sarebbe un riferimento storico al movimento politico instaurato nel 1921 e che tra il 1922 e il 1943 instaurò un regime totalitario in Italia. Tuttavia, nel mondo contemporaneo, la parola “fascismo” è utilizzata anche al di fuori del suo stringente riferimento storico. È stata utilizzata per indicare gesti, dichiarazioni e richiami apertamente ispirati all’ideologia fascista, ma anche per riferirsi a qualsiasi posizione della vita politica, della società fondata sulla forza per imporsi e assumendo una minacciosa forma al plurale. Questa forma plurale raggruppa tutti quei governi che ancora mantengono il potere con la violenza e la repressione e sono presenti nella politica internazionale.
Questo utilizzo esteso per qualcuno è ritenuto improprio perché con “fascismo” si farebbe riferimento solo all’idea conclusa e circoscritta al tempo, terminato in Italia il 25 aprile 1945. Altri invece ritengono possa assumere volti e forme diverse per quelle ideologie, regimi dittatoriali, totalitarismi che si basano sull’uso indiscriminato della forza e della sopraffazione per affermarsi. La cronaca e la storia ci hanno portato numerosi esempi in merito a questa seconda idea. Di fronte a questa mutazione è lecito chiedersi se la storia si possa ripetere. Come sottolineava l’intellettuale Umberto Eco, nel suo Il fascismo eterno (1995): «Si può giocare al fascismo in molti modi, e il nome del gioco non cambia».
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La storia può ripetersi?
Nel XVI secolo Francesco Guicciardini e Niccolò Macchiavelli, due delle voci più importanti tra gli intellettuali italiani, si ritrovarono a riflettere sul ruolo della storia nelle vicende umane. Da una parte, Francesco Guicciardini ragionava sull’impossibilità di trarre un insegnamento universalmente valido dalle vicende storiche. Invece, aderendo al concetto di historia magistra vitae, cioè la storia maestra di vita, Niccolò Macchiavelli ne sottolineava l’importanza e la necessità di ricavarne una lezione, in virtù della sua capacità di ripetersi.
Nel Novecento, anche Primo Levi abbracciò questa prospettiva. L’intellettuale, testimone delle discriminazioni dellle leggi razziali e sopravvissuto all’Olocausto, già pochi anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale metteva in guardia dal rischio dell’oblio dei fatti avvenuti, delle atrocità commesse e della privazione dei diritti fondamentali. Primo Levi, nel suo Il sistema periodico (1975) raccontava non solo l’affermazione del fascismo, ma anche la progressiva presa di coscienza di ciò che stava accadendo, unito ad una necessità di combattere un sistema basato sulla violenza.
Uscirono dall’ombra uomini che il fascismo non aveva piegato, avvocati, professori, operai […]. Il fascismo li aveva ridotti al silenzio per vent’anni e ci spiegarono che il fascismo non era soltanto un malgoverno buffone e improvvido, ma il negatore della giustizia. Era sorto e consolidato come custode di una legalità e di un ordine detestabili, fondati sulla costrizione di chi lavora, sul profitto incontrollato di chi sfrutta il lavoro altrui, sul silenzio imposto su chi pensa e non vuole essere servo, sulla menzogna sistematica e calcolata.
“Il sistema periodico” – P. Levi (1975)
In questo clima di repressione, menzogna e silenzio, l’autore non prese solo coscienza della necessità di prendere una posizione contro il regime; Primo Levi sottolineò anche il cosiddetto clima di “vacanza morale” del ventennio fascista, in cui progressivamente erano stati sospesi tutti i principi morali fondamentali. Con questa espressione, l’intellettuale intendeva condannare tutte le armi utilizzate dal regime per imporsi: la forza e la repressione verso il dissenso, l’uso del potere giudiziario per intimidire, la discriminazione del diverso e molto altro di cui il fascismo si macchiò. Con lungimirante acutezza, Primo Levi ribadì come in questo clima di sospensione dei principi morali fondamentali, la storia si potrebbe ripetere, attraverso nuovi protagonisti e movimenti.
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Il fascismo è davvero finito il 25 aprile 1945?
La Costituzione italiana nella XII disposizione e in una legge del 1952 condanna l’apologia del fascismo e di tutti i simboli e i richiami ad essa legati. Una Costituzione che aveva di fatto sancito la scelta degli italiani verso la democrazia la cesura con il passato voleva essere forte e chiara. Tuttavia, per quanto lo studio della storia aiuti a non semplificare i fenomeni, cambiare la mentalità delle persone è un processo molto più lungo e difficile. La rete è ricca non solo di gruppi apertamente ispirati al neofascismo, ma anche di opinioni che alleggeriscono il peso della figura di Benito Mussolini e del suo operato.
Negli ultimi quarant’anni gli storici si sono interrogati spesso sul fenomeno e sull’eredità fascista, indagando una forma di memoria che si è andata consolidato contro l’antifascismo. Questa cosiddetta “memoria grigia” finisce per contribuire e partecipare all’offensiva revisionistica per quanto riguarda non solo ciò che è stata la lotta contro il fascismo e le azioni di uomini e donne per la liberazione, ma anche cosa sia fondamentale continuare a fare per evitare che la storia si ripeta.
Ecco perché il 25 aprile dovrebbe essere un momento di riflessione non solo su ciò che è stato, ma su come non permettere che questo si ripeta in qualsiasi forma e direzione politica, per disinnescare attraverso una riflessione tutti quei tentativi di alleggerire il peso di un periodo storico che sta perdendo progressivamente i suoi diretti testimoni e di conseguenza la memoria storica di quanto è accaduto. Come sottolinea lo storico Carlo Greppi in una sua opera di riflessione sul ruolo dell’antifascismo nell’epoca contemporanea, L’antifascismo non serve più a niente (2020): «il lungo corso dell’antifascismo serve a questo: a dotarci degli antidoti contro la “sirena autoritaria” a darci uno scenario e un vocabolario con i quali agire».
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