Per comprendere un processo complesso la mente umana tende a dividere, segmentare, riordinare, riunire, e infine, dare un senso alle cose. È un meccanismo naturale e al tempo stesso scientifico che aiuta ad andare davvero in profondità. La storia non è che questo: una lunga linea del tempo complessa, che per essere compresa viene continuamente segmentata ed etichettata per permetterci di trovare il nesso causa-effetto, i protagonisti dei fatti e dei processi, le conseguenze che un episodio ha sulla piccola e la grande Storia. Non fa eccezione la storia degli afroamericani che da qualche anno è celebrata e studiata anche in un particolare mese dell’anno, febbraio, con quello che prende il nome di Black History Month, letteralmente mese della storia dei neri.
Da qualche anno se ne parla anche in Italia di questa ricorrenza che viene affrontata (banalizziamo) fondamentalmente nel nostro paese in due modi: da una parte il ricordo delle gesta di grandi uomini e donne di colore – la leggenda Jesse Owens alle Olimpiadi di Berlino del 1936, la prima donna afroamericana a frequentare la Facoltà di Legge a Yale Jane Bolin, il primo presidente afroamericano della storia americana Barack Obama, solo per citarne alcuni -, e dall’altra quello che il movimento afroamericano sta diventando (presunto o reale) e come dagli Stati Uniti le rivendicazioni delle persone di colore stanno giungendo – e tengono accesa l’attenzione su alcuni fatti – anche oltreoceano. Su questo ultimo filone una spinta considerevole l’ha data sicuramente il movimento Black Lives Matter, in grado di accendere una luce forte sulle quotidiane ingiustizie e discriminazioni che milioni di persone vivono ancora oggi sulla propria pelle.
Non sempre visto di buon occhio anche dagli stessi afroamericani (i più critici sostengono, ad esempio, che di storia dei neri se ne dovrebbe parlare sempre, non solo a febbraio), il Black History Month ha un merito metodologico, almeno per chi scrive questo pezzo oggi: aiutarci in quell’esercizio di frammentazione della complessità che ci permette di isolare, studiare e quindi comprendere meglio le cose. Lo staranno facendo probabilmente anche i sondaggisti impegnati nello studiare i flussi di voto che caratterizzeranno l’elezione più importante dell’anno, quella per la presidenza USA. Vedere il voto afroamericano e come questo si posizionerà nel novembre del 2024 può dirci tanto, soprattutto se la situazione non fosse chiara come sembra e in campo ci fosse (a sorpresa) un carismatico leader di colore. Ma andiamo con ordine.
Il sistema politico americano è caratterizzato da una peculiare etnicizzazione. Quando si parla di candidati e candidate, si fa spesso riferimento alle origini (molto spesso lontane) e alla possibilità di far affidamento, in fase elettorale, su specifici gruppi etnici che negli USA sono organizzati e hanno la forza elettorale che può cambiare le sorti dei molti Stati in bilico. Proprio per questo, le storiche rivendicazioni della comunità afroamericana o afrodiscendente hanno un proprio peso politico. A sostegno di tale tesi, il riverbero delle grandi manifestazioni che hanno seguito l’omicidio di George Floyd avvenuto durante un fermo della polizia il 25 maggio 2020 nella città di Minneapolis (Minnesota). Nel corso delle manifestazioni si rivendicavano i diritti della comunità afroamericana e di tutte le minoranze, continuando una lotta ben più lunga per l’uguaglianza e contro ogni forma di discriminazione. Risalta che tali manifestazioni intersechino proteste legate alle condizioni…