«Rubare è un mestiere impegnativo, ci vuole gente seria, mica come voi!
Voi al massimo… potete andare a lavorare! »
(Tiberio)
I soliti ignoti, pellicola del 1958 che porta la firma di Mario Monicelli, è considerato dalla critica cinematografica il caposcuola del caper movie italiano (film con tema il furto di gruppo) ed è entrato con forza nell’immaginario collettivo e nel linguaggio comune, resistendo al passare del tempo. Opera spartiacque del cinema nostrano al pari di Ossessione di Luchino Visconti e Roma città aperta di Roberto Rossellini, venne recepito immediatamente come un’opera singolare e originale nel panorama cinematografico di allora.
Monicelli ebbe la fortuna di dirigere un cast di all stars, ma che, grazie a I soliti ignoti, potè acquisire nuova fama: se infatti, Vittorio Gassman, sembrava rilegato al ruolo di villain, grazie al suo personaggio riuscì a limare l’esplosiva espressività della sua arte (il trucco era molto particolare, con l’attaccatura dei capelli abbassata, il naso accentuato e le labbra cadenti) per caratterizzare, insieme alla parlata balbettante, un pugile allampanato e genio del crimine della domenica. C’erano poi due belli del cinema italiano, Marcello Mastroianni – quando non era ancora diventato l’uomo dei sogni felliniano – e Renato Salvatori. A completare la banda di questi criminali da strapazzo, si aggiunsero dei caratteristi come Tiberio Murgia che, sebbene fosse sardo, recitava il ruolo del siciliano oppure il Capannelle interpretato da Carlo Pisacane. Il gruppetto di criminali fu istruito dalla partecipazione straordinaria di Totò (Dante Cruciani), che diede loro ripetizioni di “scassinaggio”.
Il film ha inizio con Cosimo e il vecchio Capannelle che tentano il furto di un’autovettura, ma vengono scoperti: il primo viene arrestato e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli e, apprendendo un piano per un colpo facile da realizzare presso il monte di Pietà, è alla ricerca di una “pecora”, ovvero qualcuno che, dietro pagamento, lo sostituisca in galera. Ha inizio così una vera e propria quest dei candidati: compaiono dunque in scena Tiberio (Marcello Mastroianni) e Mario (Renato Salvatori), che però rifiutano il lavoro per “motivi di famiglia”. Tramite una serie di gag comiche che si sviluppano per accumulo, tipico di tutta la commedia all’italiana, si arriva a Peppe “Er Pantera” (Vittorio Gassman), un pugile che va sempre al tappeto, che inizialmente si comporta da sbruffone e dice: «Senti, leggili i giornali domani mattina. A me me’ trovate nella pagina sportiva, all’avversario mio negli annunzi mortuari!». Lo stesso Mario, convinto dalla sua energia si dimostra dubbioso a proporgli il lavoro e rincara: «Ma figurati se un fusto come lui si mette a fa’ la pecora!». Naturalmente, nell’inquadratura successiva Monicelli mostra Peppe che viene mandato K.O. al primo round. Peppe accetta dunque il lavoro, ma il poliziotto a cui racconta l’accaduto non si fa ingannare e manda in galera entrambi. Questo, dopo essersi fatto confidare i piani segreti di Cosimo, esce di prigione avvalendosi della condizionale. Insieme agli altri tre compagni, organizza il furto: dopo essersi introdotti nell’appartamento ed aver abbattuto la parete comunicante, dovranno raggiungere la stanza del Banco, dove si trova la cassaforte. In questo appartamento, però, abitano due vecchiette per cui lavora la giovane Nicoletta, che Peppe si prefigge di sedurre per riuscire ad avere accesso all’appartamento. Tuttavia il furto si rivelerà fallimentare e il gruppo opterà per accontentarsi di pasta e ceci che trovano nell’appartamento e, alle prime luci dell’alba, il gruppo si scioglierà e i protagonisti si dilegueranno mestamente.
Questa celebre pellicola ha segnato l’esordio ufficiale della Commedia all’italiana, abbandonando i canoni consueti che provenivano dall’avanspettacolo o dal varietà e adottando come tematiche principali la quotidianità e la gente comune, con precisi riferimenti sociali in cui il pubblico potesse riconoscersi. Inoltre, gli interpreti sostituirono al ruolo della maschera teatrale, alla comicità basata sulle gag e i giochi di parole, alcuni dialoghi e trovate umoristiche ben articolate su prove definite, talvolta caricaturali, ma pur sempre riferite a una sceneggiatura chiara. Se i personaggi, infatti, sono concepiti alla maniera della farsa plautina e della commedia dell’arte tutti in primo piano, lo sfondo invece definisce i contorni della realtà da loro abitata. In secondo luogo, fa da sfondo – e anche da oggetto del desiderio – la “comare”, la cassaforte del banco dei pegni, vista prima dal binocolo durante la perlustrazione iniziale da parte del gruppo e poi rivista nel filmato di Tiberio: questa sequenza è mirabile sia per la componente meta-filmica (il gruppo è in una stanza a guardare le immagini con la medesima di una troupe televisiva che osserva il filmato del giorno), sia per il susseguirsi di battute, in particolare quelle di Totò – illuminato al centro tra gli altri – che esordisce commentando nei confronti dell’indispettito Tiberio: «Come film…è una vera schifezza!».
Non bisogna dimenticare che il film è nato in chiave caricaturale, in quanto si voleva parodiare i generi di film noir francesi e gangster americani tanto in voga in quegli anni, e che il soggetto si riferisce al drammatico film francese Rififi, di Jules Dassin (1955), in cui una banda di quattro ladri tenta un colpo in modo fallimentare. Definendo, però, la pellicola unicamente una parodia, si rischia di avvalersi di una visione interpretativa assai limitata: essa si arricchisce di novità importanti e originali nel corso della produzione e viene data dal regista una vena tragicomica. Il critico Carlo Lizzani affermò, infatti, che il film è in grado di portare il comico fuori dai confini abituali della farsa, acquistando una vera e propria consistenza cinematografica. Inoltre, era la prima volta che il tragico contaminava una commedia italiana: la morte di uno dei protagonisti e il fallimento del furto si rivelarono una tecnica fondamentale nella cinematografia di Monicelli. Questa vena drammatica non è da rintracciarsi solo nei personaggi, ma anche nella Roma dei quartieri popolari e delle periferie in degrado, estranea ai processi economici del boom di quegli anni. A questo proposito la fotografia fu molto curata, per restituire l’idea di una Roma drammatica: i toni non erano eccessivamente luminosi, mentre i contrasti e i tagli erano netti e decisi.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la critica non accolse bene il tentativo di sostituire i comici dell’arte con degli attori già affermati in contesto drammatico: per esempio su Gassman gli stessi produttori si erano dimostrati indecisi a causa della sua aria intellettuale, del suo repertorio teatrale drammatico e degli innumerevoli ruoli da “cattivo” che aveva interpretato. In secondo luogo, Totò fu giudicato eccessivo, nonostante la sua minima interpretazione. Inoltre, la critica non apprezzò la trovata ad effetto della pellicola, ovvero la trasformazione di attori seri in “caratteri” della commedia, dotati di vis comica.
Dunque, I soliti ignoti è un canto di disperati che si aggrappano all’idea del furto come ultimo metodo dell’arte di arrangiarsi, l’unico altro modus vivendi all’interno della società senza abbassarsi alla pratica del lavoro. In questo senso, Dante Cruciani è foriero delle sorti dei protagonisti: l’uomo è anziano, guardato a vista dalle forze dell’ordine e povero; l’esperienza che mette in pratica per il gruppo lo ha aiutato a sopravvivere, ma non a vivere una vita normale o da benestante. I personaggi, quindi, sono accompagnati dall’aura del fallimento e chi non vuole arrendersi si deve adattare al lavoro, come fanno Mario per amore di Carmelina e Peppe, dopo che il colpo è fallito. Nonostante il suo strenuo tentativo di pianificare le cose «sc-sc-scientificamente», la catastrofe tragicomica incombe sui personaggi e riflette la frustrazione del mancato adeguamento alle regole della società.
Nicole Erbetti