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Un tramonto lungo mesi: The Weather Project di Olafur Eliasson

L'opera d'arte di Eliasson è oggi più attuale che mai: che rapporto c'è tra la natura e l'uomo? E che ruolo ha il singolo all'interno della società? Una riflessione profonda che coinvolge corpo e mente.

5 minuti di lettura

A vent’anni dalla sua nascita, The Weather Project, opera dell’artista Olafur Eliasson, non smette di ribadire la propria attualità. Un tramonto lungo cinque mesi che, tra ottobre 2003 e marzo 2004, ha illuminato la Tate Modern di Londra, regalando agli inglesi un po’ di sole e facendo riflettere il mondo sull’ambiente e sulla società.

The Weather Project
Fonte: Flickr

Il ruolo della natura

Classe 1967, Olafur Eliasson è un artista cresciuto tra la Danimarca e l’Islanda, terra di suo padre. Sono le radici familiari, poste in questi Paesi in cui la natura è dominante, a rendere quest’ultima il punto di riferimento ideale e imprescindibile del suo lavoro. Tuttavia, le opere d’arte realizzate da Eliasson non possono essere ridotte teoricamente a una mera riproduzione, per quanto spettacolare, di fenomeni naturali. I mezzi tecnici stessi scelti dall’artista e i luoghi in cui espone le sue realizzazioni invitano infatti a riflettere a fondo sulle intenzioni alla base del suo operato e portano a conclusioni che si allontanano dall’oggetto inizialmente centrale, la natura appunto.

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Nell’arte di Eliasson la natura viene trattata come un prodotto culturale. Non è però un controllo volto alla dominazione quello che mette in campo, quanto piuttosto un controllo mosso dal desidero di conoscenza approfondita di quei fenomeni tanto affascinanti quanto ancora sconosciuti. Dopo decenni di arte astratta, Eliasson recupera la figuratività e unisce la collettività partendo dall’origine naturale che accomuna ciascun individuo, utilizzando cioè elementi che tutti conosciamo: l’acqua dei fiumi, la terra, il muschio, la pioggia che genera l’arcobaleno, il sole. Proprio al sole è dedicata The Weather Project, forse l’opera più conosciuta di Olafur Eliasson.

The Weather Project oltre il museo

L’installazione è stata realizzata nel 2003 presso la Turbine Hall della Tate Modern. Questa sala è ricavata in quella che un tempo era la ciminiera della centrale termoelettrica, poi riadattata a museo alla fine degli anni Novanta. Con un’altezza di quasi cento metri e una superficie di tremilatrecento metri quadrati utili all’esposizione, si presenta come un enorme spazio vuoto, per questo particolarmente adatto a progetti innovativi e sperimentali.

L’idea alla base dell’opera era la riproduzione di un sole invernale al tramonto, che potesse avvicinarsi a quello londinese. Era realizzato mediante uno schermo semicircolare, retroilluminato da duecento lampade monofrequenza a basso contenuto di sodio. Questo tipo di lampada è utilizzato principalmente nei lampioni stradali ed è stato scelto in quanto la frequenza di emissione della luce è talmente bassa da rendere impercettibile qualsiasi altro colore oltre al nero e al giallo. In tal modo, i visitatori risultavano delle silhouette scure contro un campo di luce intensa. Il semicerchio era completato otticamente grazie all’utilizzo di un soffitto specchiato posto a circa venticinque metri d’altezza, composto da trecento pannelli che andavano a coprire una superficie di quasi quattromila metri quadrati. Lo smarrimento visivo provocato da questa luce particolare era aumentato dalla diffusione di una sottile nebbia nella sala, che andava a nascondere i confini architettonici e, dunque, a rendere percettivamente quasi infinito lo spazio, oltre a richiamare la tipica nebbia londinese. Anche l’utilizzo dello specchio causava un piccolo shock visivo allo spettatore, raddoppiando lo spazio già enorme.

Fonte: Flickr

Durante la preparazione della mostra e in aggiunta alla sola installazione, Eliasson ha realizzato una serie di interventi collaterali che hanno portato l’opera al di fuori dello spazio espositivo. Tra questi, un questionario che ha sottoposto ai dipendenti della Tate Modern, le cui risposte sono state pubblicate nel catalogo della mostra, insieme agli atti di una tavola rotonda riguardo la comunicazione dell’arte, ma anche bollettini di eventi climatici estremi o anomali, statistiche meteorologiche e alcuni saggi sul tempo.

Come per altre grandi opere, viste le dimensioni notevoli, l’unico modo per esperire The Weather Project era «esservi dentro, abitarla nello stesso modo in cui pensiamo di abitare lo spazio del nostro stesso corpo» (R. Krauss, Passaggi). In tal modo, l’opera spinge l’osservatore a divenire osservato, a sentire lo sguardo esterno su di sé e a intraprendere un viaggio di esplorazione e conoscenza dentro sé stesso, sempre mettendosi in relazione con ciò e chi lo circonda. The Weather Project richiede un investimento fisico totale, anche in virtù del fatto che per l’artista nessuna sua opera può essere completa se non con la presenza dell’osservatore. Eliasson infatti definisce le sue opere come “macchine”, lasciando intendere la sua concezione di queste come mezzo necessario ma puramente funzionale al raggiungimento di un risultato, di un significato più alto. Queste macchine sono quindi dispositivi tecnologici di cui l’artista decide di lasciare scoperti i meccanismi di funzionamento, demistificandole in tal modo, le quali diventano arte solo ed esclusivamente nel momento dell’incontro con lo spettatore.

L’importanza del pubblico

The Weather Project ha avuto un enorme successo di pubblico. Durante i cinque mesi di apertura più di due milioni di visitatori hanno visto, o dovremmo forse dire vissuto, lo spazio allestito dall’artista danese, interagendo con l’ambiente creato come se fosse effettivamente prodotto della natura, ignorando i ben visibili espedienti tecnologici utilizzati e abbandonandosi all’illusione.

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Sebbene inserito in un contesto museale, per quanto poco tradizionale a livello spaziale, l’esperienza che gli spettatori hanno vissuto con The Weather Project non è stata quella comunemente restituita in un museo. Come l’artista stesso racconta, infatti, le persone sono diventate fisicamente esplicite, oltre ogni previsione. Era facilmente intuibile che lo specchio avrebbe attirato molta attenzione e curiosità, ma difficilmente ci si sarebbe potuti aspettare ciò che poi è effettivamente successo: i visitatori si sdraiavano a terra, anche per intere ore, ammirando sé stessi riflessi insieme agli altri, constatando la propria presenza in quello spazio. Le persone salutavano, si rotolavano, quasi come bambini che per la prima volta si riconoscono nello specchio. Questo senso di comunità e vicinanza che si veniva a creare ha portato in molte occasioni a sviluppare una sorta di desiderio di sperimentazione e gioco. Gli spettatori si radunavano e creavano delle forme, talvolta addirittura delle scritte, con i propri corpi. Eliasson racconta che, in occasione di una visita del presidente degli Stati Uniti a Londra, le persone si sono schierate sul pavimento scrivendo “Bush go home”. Una persona ha portato una canoa gonfiabile, venivano organizzate lezioni di yoga, incontri di un club di poesia che metteva in guardia sull’arrivo imminente del giorno del Giudizio. Un meteorologo della BBC ha allestito un piccolo studio in prossimità del sole artificiale e ha trasmesso le previsioni dalla Tate ogni giorno per una settimana, salutando con un ironico «And here at the Tate the sun is still shining». Questo ha portato The Weather Project a uscire ulteriormente dallo spazio espositivo, in un modo totalmente inaspettato e imprevedibile, arrivando a milioni di telespettatori.

The Weather Project
Fonte: Flickr

Il fatto di vedersi e percepirsi come parte di un insieme più grande, esplicitato e mostrato proprio dal soffitto specchiante, ha permesso ai visitatori di elaborare più coscientemente un istinto che in realtà esiste già inconsciamente in ciascuno: nel momento in cui non ci sentiamo individui isolati diveniamo consapevoli della nostra umanità e del legame che ci unisce alle altre persone. Ci rendiamo conto della nostra piccolezza, ma allo stesso tempo dell’importanza che ogni individuo rappresenta all’interno di una comunità, di quanto ciascuno può fare la differenza. È questo che Olafur Eliasson predica da sempre e cerca, attraverso la propria arte, di rendere esplicito per far raggiungere all’osservatore un grado di consapevolezza maggiore. Per quanto affascinante e divertente, The Weather Project non è un’opera di intrattenimento o volta esclusivamente a suscitare stupore. È un’opera che coinvolge corpo e mente, rendendo percepibile e punto focale ciò che comunemente non lo è o viene dato per scontato e ignorato. Eliasson rende sensibilmente esplicito il ruolo di ciascuno nella società

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Rebecca Sivieri

Classe 1999. Nata e cresciuta nella mia amata Cremona, partita poi alla volta di Venezia per la laurea triennale in Arti Visive e Multimediali. Dato che soffro il mal di mare, per la Magistrale in Arte ho optato per Trento. Scrivere non è forse il mio mestiere, ma mi piace parlare agli altri di ciò che amo.

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