Nel suo capolavoro Sole nero. Depressione e melanconia, la psicoanalista e semiologa Julia Kristeva traccia alcune notazioni importanti riguardo alla struttura, in generale, della psicopatologia, utili al fine della comprensione del simbolico, della bellezza e dell’arte. Allieva di Jacques Lacan, il riferimento principale è al concetto centrale dell’approccio lacaniano che, nel Seminario VII, si qualifica come la Cosa. La potenza di questa puntualizzazione, estratta soprattutto da Sigmund Freud e Melanie Klein, non viene mai abbastanza ricordata. Cosa e Oggetto non sono sinonimi. Si può citare l’immagine aforistica di Lacan dell’uccisione della Cosa da parte del Simbolo. Il Simbolo impone traumaticamente la distanza dalla Cosa, si impone traumaticamente parassitando il corpo vivente, separando il godimento e, nello stesso tempo, immettendolo e iniettandolo come impossibile nella sua totalità. La Cosa, da un punto di vista immaginario, è ciò che Melanie Klein identificava come il mitico corpo materno contenitore di tutti gli oggetti, fonte di attrazione-fascinazione-amore così come bersaglio di invidia e avidità o fonte di persecuzione. Lacan si spinge oltre, riprendendo una maggiore aderenza al Freud dell’Entwurf. Julia Kristeva riporta una definizione del Seminario VII che si rivela molto utile:
Das Ding è originariamente ciò che noi quindi chiamiamo il fuori-significato. È in funzione di questo fuori-significato e di un rapporto patetico con esso che il soggetto mantiene la propria distanza e si costituisce in questo mondo di rapporto, di affetto primario anteriore ad ogni rimozione. 1
Torna il tema della distanza, strutturale alla possibilità del segno. Ma la Cosa è. Eppure è da sempre perduta. Non si sa né quando né come ciò sia avvenuto: le separazioni traumatiche, i crolli luttuosi della vita di ciascuno, in realtà, non fanno che rinnovare la perdita originaria avvenuta in illo tempore e ab origine. Come non vedere, qui, la radice delle costruzioni mitologiche che vanno dalla Caduta alla violenza primigenia e fondativa del cosmo? Quell’affetto primario anteriore dà una spia della presenza. Kristeva sviluppa questo punto. La Cosa lascia tracce. È ciò che l’autrice chiama il semiotico, che ancora non è il simbolico, identificato invece con la proposizione, il giudizio, la frase, cioè un sistema di posizioni definite attraverso la loro reciproca differenza (principio di non-contraddizione). Marche, indizi, dallo statuto incerto, tracce di spostamenti energetici soggetti a condensazioni, che si esperiscono sotto forma di affetti. Sono gli affetti a emergere sulla scena, talvolta prepotentemente, in quelle situazioni che espongono al crollo del simbolico (le “crisi della presenza” di Ernesto De Martino, si può dire), al suo vacillamento, riportando il trauma in primo piano, e producendo l’attivarsi delle difese consustanziali alla struttura di riferimento e alla personalità del soggetto. Ma l’affetto è già semiotizzato, torna nei ritmi corporei, nei vocalizzi, nella prosodia, nei movimenti, nell’umore. Nella melanconia l’affetto prevalente è la tristezza, con i suoi effetti di rallentamento e di svuotamento, di a-simbolia e di parola che lentamente gira a vuoto o non gira. Se il mondo non ha senso, come possono le parole dirne qualcosa? Al polo opposto, compare la maniacalità come fuga opposta del senso e dal senso nell’euforia. Se la struttura è identificabile e formalizzabile, il semiotico è qualcosa di più unico, antico e personale. Forse da qui viene tratta l’espressione peculiare a ogni artista e a lui solo.
Se il Simbolo uccide la Cosa, la negazione è l’iscrizione della discontinuità in seno al vivente. L’Altro assoluto – Freud è molto chiaro nel dire che l’odio precede l’amore – è anche ciò che suscita odio e repulsione. La Cosa, sul piano immaginario, può essere anche la cloaca delle mie deiezioni. Il trauma del linguaggio (l’Altro) non può che devastare, pur permettendo, come guadagno, l’uso dei segni, cioè la creazione. L’operazione produce il Soggetto, non può non produrlo, nella barra che divide conscio e inconscio, ma il Soggetto sarà mosso e chiamato tutta l’esistenza, tramite l’Io, a confrontarsi con questa operazione sempre in atto, che aliena così come condiziona, necessariamente, la possibilità stessa della vita mentale e comunitaria. Il reinvenimento della Cosa sarà possibile attraverso la metonimia dell’Oggetto, nelle sue molteplici forme, il quale avrà il posto di causa del desiderio proprio perché mai corrisponderà alla Cosa. Molla della sublimazione, fonte principe dell’arte. Il lutto si rivela, così, nello stesso tempo impossibile e vitalizzante. Ma non solo. Sarà nel linguaggio e nei segni (ecco l’arte come gioco di segni e simboli) che la Cosa sarà rinvenuta, nello sforzo dell’umano verso la traducibilità. Tradurre è tradire, cioè spostare, da un sistema di segni a un altro, il lutto del significato primo, nella tensione a dire il fondamento, cioè giungere a dire il pieno del linguaggio. Essendo quel pieno l’origine, o meglio l’insorgenza, dirla è abolire il linguaggio. Nulla, silenzio, punto di giunzione tra Vita e Morte. Il crinale è precario. Per Kristeva, la civiltà occidentale è una civiltà della traducibilità. Lo sforzo immane di pensiero e di produzione, di critica e di creatività dell’Occidente si muove da questo sforzo. Nominare Dio, dire Dio. La sconvolgente varietà artistica occidentale, di movimenti, contro-movimenti, stili e pluralizzazione, si può collocare qui.
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La negazione è ciò che permette il rimosso e quei giochi di interazione tra conscio e inconscio. Ma la negazione non è l’unico destino. Il rinnegamento (psicotico) e il diniego (perverso) sono le due modalità principali di negazione della negazione. Allontanandosi dal tema specifico della melanconia, due aspetti sono messi in luce dall’autrice. Per la psicoanalisi più in generale, soprattutto in Melanie Klein e nei post-kleiniani, l’Io non nasce integro e coeso, ma è da sempre (e per sempre) attraversato dalla spinta alla disintegrazione per effetto della pulsione di morte e delle pressioni esterne. L’angoscia è lì. Spinta alla forma-integrazione e all’informe-disintegrazione. L’affetto-tristezza, nella melanconia, è quell’ultimo, fragile argine che può conferire una forma, seppur negativa, al definitivo spezzettamento. Ora, l’immagine, la costruzione immaginaria, è una primissima deviazione della pulsione di morte. Dalle imago parentali allo schema corporeo, l’immagine depura, in parte, devia la pulsione di morte. Kristeva aggiunge, però, un’osservazione tratta dai sogni di pazienti borderline, schizoidi o sotto esperienze psichedeliche, in cui è nella “forma” di linee confuse, grovigli, veri e propri “dipinti astratti” che l’esperienza inconscia viene a manifestarsi. Il teatro del sogno è così disossato e distrutto, e la rappresentazione sospesa. In ciò viene letto un indizio, più che un segno, della pulsione di morte. Così scrive:
A parte le rappresentazioni in immagini, necessariamente spostate perché erotizzate, della pulsione di morte, il lavoro puro e semplice della morte, al grado zero dello psichisimo, è individuabile proprio nella dissociazione della forma in sé, quando quest’ultima si s-forma, si astrae, si s-sfigura, si svuota: soglie ultime della dislocazione e del godimento inscrittibili… 2
Una lunga linea nella storia dell’arte si può tracciare a partire da questa frase. Linea che emerge dalla fine dell’Ottocento (con importanti antecedenti), in quella rottura apparentemente irrimediabile tra artista e società, artista e mondo, nell’anelito disperato a fondare un’unità di arte e vita o nell’abitare, anche aggressivamente, la loro scissione, fino a trionfare nel Novecento, con esiti oscuri, lucenti, dalla varietà straordinaria.
La seconda osservazione preziosa del libro riguarda il rapporto tra allegoria e bellezza. La bellezza, come osservato nel breve, profondo testo di Freud intitolato Caducità, piccola pièce drammatica di un dialogo tra melanconici, di cui uno poeta, non è antagonista alla caducità, a quell’effimero che attraversa ogni ente, ma ne è figlia prediletta. La bellezza non salva dalla morte, né riuscì a salvare molti artisti dal suicidio, tantomeno i fruitori. Ma essa si presenta come quella negazione della perdita, negazione della negazione, capace di dare splendore e dignità, almeno nel momento della cattura o nel moto della creazione, a quella perdita stessa. Per Julia Kristeva, riprendendo il Walter Benjamin de Il dramma barocco tedesco, la sua figura principe è l’allegoria. Eppure, è proprio quella figura retorica, che il grande filosofo tedesco fonda nella storicità, che permette di nominare l’assenza nell’immagine. Nella sua possibilità di traduzione, rivela la malinconia primigenia, in particolare dell’uomo occidentale: il vecchio, l’Antico, il perduto, per esempio Venere, può divenire allegoria, in un nuovo contesto, dell’amore cristiano. Essa diviene leggibile e traducibile, ma è allo stesso tempo un significante perduto che subisce un’innovata esaltazione. Il movimento del simbolico, dell’inesauribile del simbolo, il taglio, il trauma, rimane in atto. Il pieno del linguaggio (la Cosa) è raggiunto – in un’illusione reale – in un’immagine traducibile, che adombra, nella bellezza, il vuoto (la perdita) che ne ha permesso la creazione e la concretizzazione, ad esempio, in una raffigurazione pittorica. L’economia dell’immaginario è dunque di stampo allegorico, nel senso che promette, nella cattura immaginaria, una traducibilità, producendo splendore e giubilo, ed è il fatto che promette e non mantiene ad aprire il campo dello scoramento, persino dell’orrore (doppio mostruoso). Nel Seminario VII, Lacan espone l’ardita tesi che il Bello è la difesa ultima rispetto alla Cosa. Non il Bene – economia bei beni e della morale – ma il Bello. L’Antigone lacaniana rifulge agli occhi del coro quando supera la barriera della tomba. La purezza del desiderio (Vita), che in Antigone è desiderio di Morte per la profezia inscritta in lei ab origine, nel suo ambiguo e ultimo realizzarsi, desiderio su cui ella non cede, è un’epifania del Bello: non a caso, sulla soglia del Nulla.
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Bibliografia
1 Jacques Lacan, L’Etique de la psychanalyse, seminario del 9 dicembre 1959, Seul, Paris 1986, pp. 67-68 cit. in Julia Kristeva, Sole nero. Depressione e melanconia, Roma, Donzelli editore, 2. ed, p. 16
2 Ivi, p. 27