Poche figure hanno attraversato il Novecento come la scultrice francese Louise Bourgeois, la cui produzione artistica, iniziata negli anni Quaranta e proseguita fino al 2010 – anno della scomparsa, avvenuta alla veneranda età di novantotto anni – nel solco di una ricerca artistica autonoma e talvolta solitaria durata settanta anni, animata da una grande volontà di sperimentazione materica, è difficilmente ascrivibile ad un’unica corrente artistica.
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Nata nel 1911 in una famiglia della buona borghesia francese – i genitori erano rinomati restauratori di arazzi rinascimentali – l’infanzia agiata di Louise Bourgeois è tuttavia scossa da alcuni traumi, come l’inserimento nel nucleo familiare dell’amante del padre, poco più grande di Louise e assunta inizialmente come istitutrice dei figli. L’adolescenza della futura scultrice è prevedibilmente all’insegna della ribellione nei confronti di un padre crudele e di una madre troppo debole. Dopo essere stata espulsa dal prestigioso liceo scelto per lei dai genitori, sceglie di diventare artista iscrivendosi all’Accademia di Belle Arti di Parigi, dove scopre la sua vocazione per la scultura. Negli anni Trenta si innamora del giovane insegnante e critico d’arte Robert Goldwater, specializzato in arte africana e primitiva, che sposerà e con il quale si trasferirà a New York nel 1938. Inizia dunque il periodo americano di Louise Bourgeois, in cui entra in contatto con gli ambienti culturali e artistici più stimolanti di New York, in procinto di detronizzare Parigi per divenire nuovo epicentro delle tendenze artistiche mondiali.
Le sculture realizzate dalla fine degli anni Quaranta ai primi anni Sessanta, influenzate dal tardo surrealismo imperante a New York dopo l’emigrazione dei surrealisti europei in fuga dai totalitarismi, sono una rielaborazione della rabbia repressa e delle ferite dell’infanzia e dell’adolescenza, la cui memoria è vivificata delle sedute di psicanalisi a cui l’artista si sottoponeva da diversi anni.
Le sculture degli anni Sessanta, realizzate con materiali eterogenei come stoffa, gesso e latex – suo segno distintivo – presentano una compresenza di forme sessuali femminili e maschili, sculture falliche che rivelano inaspettatamente protuberanze simili a seni, come la scultura fallica del 1968 dall’ironico titolo Fillette (bambina) con la quale Louise Bourgeois è stata immortalata dal fotografo Robert Mapplethorpe nell’iconico scatto del 1982: «Sono molto interessata alle forme femminili ma spesso vado oltre: seni fallici, maschili e femminili, attivi e passivi».
Gli anni Settanta rappresentano una svolta nella produzione dell’artista che, a più di sessant’anni, inizia a lavorare con le installazioni. La sua opera più celebre è l’installazione del 1974 Destruction of the father, un ambiente claustrofobico che metaforizza l’impossibilità di scappare dagli interminabili pranzi di famiglia con il padre-padrone, i cui desideri dovevano essere anticipati ancor prima che li esplicitasse, e Sadie, l’istitutrice-amante, la cui presenza venne imposta a figli e moglie per oltre dieci anni. L’opera è nata dalle fantasie di vendetta dell’artista: «Siamo a tavola e mio padre parla. Ho paura perché più parla e più noi diventiamo piccoli. All’improvviso la tensione diventa orribile e noi lo afferriamo – io, mia madre, mio fratello, mia sorella – lo spingiamo sulla tavola con braccia e gambe divaricate e lo divoriamo».
Nel 1982 arriva la consacrazione definitiva, il MoMa di New York le dedica una retrospettiva e da quel momento in poi è Bourgeois-mania; l’artista diventa un punto di riferimento per l’arte contemporanea e per una generazione di donne che vedono in lei una sorta di «madre spirituale». L’artista, dal canto suo, reagisce alla fama proseguendo la sua vita solitaria e poco mondana, fatta di lavoro e poche interviste, rifiutando tutte le etichette e definizioni, compresa quella di «femminista», che le sono state attribuite nel corso dei decenni.
Negli anni successivi, tra il 1989 e il 1993, continua a lavorare sugli spazi chiusi, claustrofobici e asfittici, da lei chiamati Cells, ennesima rielaborazione degli ambienti della sua infanzia, alle volte adornati con oggetti del suo passato, come in The Last Climb, dove compare la scala del suo primo studio a Brooklyn.
Nel 1999 realizza una delle sue sculture più note e apprezzate, il gigantesco ragno in acciaio Maman, la cui versione originale, alta circa dieci metri e larga altrettanto, troneggia davanti al Museo Guggenheim di Bilbao.
Il ragno, generalmente temuto e disprezzato, ha una valenza positiva per la scultrice che lo paragona all’amata madre, figura attenta e protettiva nonché esperta tessitrice, la cui scomparsa aveva segnato profondamente l’artista appena ventenne, scatenandole una forte depressione.
Ad oggi Louise Bourgeois, insieme a figure cardine come Marcel Duchamp e Pablo Picasso, è considerata dalla critica una delle personalità che più hanno contribuito a plasmare l’immaginario artistico del Novecento, secolo da lei attraversato senza mai lasciarsi incantare dal canto delle sirene della fama e delle mode passeggere.
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