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White Feminism

Il white feminism incentra la lotta femminista sull’esperienza delle donne bianche, eterosessuali e di classe media. Ma il femminismo non può essere bianco, vediamo perché.

4 minuti di lettura

Le donne bianche riformiste dotate di un privilegio di classe erano fin dall’inizio ben consapevoli che il potere e la libertà che loro volevano erano il potere e la libertà di cui vedevano godere gli uomini della loro classe.[1]

Quando si parla di white feminism si fa riferimento a una particolare tendenza del femminismo a incentrare la lotta, gli obiettivi e le pratiche del movimento esclusivamente sull’esperienza delle donne bianche, eterosessuali e di classe media. Specialmente negli Stati Uniti, agli inizi del movimento, fu questa categoria ad autoproclamarsi come rappresentante dell’intero genere femminile, lottando per l’emancipazione non di tutte le donne, ma solo di quelle che loro rappresentavano. Le priorità e gli scopi del movimento non erano orientati dalla necessità di contrastare il sistema patriarcale, ma dalla volontà di ottenere potere di classe. La retorica femminista dell’uguaglianza era in questo modo manomessa fino al punto in cui l’aspirazione a distruggere il sistema si trasformava nel desiderio di farne parte allo stesso modo degli oppressori. Le voci delle femministe bianche privilegiate venivano quindi ascoltate e ottenevano consensi proprio perché non minacciavano il patriarca, anzi lo innalzavano a modello da imitare.

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Impadronirsi del movimento

L’incalzante industrializzazione degli Stati Uniti aveva determinato l’esclusione delle donne bianche dal settore produttivo relegando il loro ruolo alla gestione domestica, separandole dalla sfera politica ed economica. Si diffondeva un’ideologia popolare definita da Betty Friedan come mistica della femminilità che esaltava come peculiari virtù femminili tutte le caratteristiche servili delle donne. La donna perfetta era una madre e una moglie perfetta. Betty Friedan, insieme ad altre femministe bianche, denunciava l’oppressione di questa condizione parlando di una gabbia dorata che soffocava tutte le donne americane impedendo loro di esprimere la propria individualità.

La separazione delle donne bianche dal mondo produttivo associata all’idea di una loro appartenenza naturale a quello riproduttivo, le posizionava in una condizione di inferiorità che giustificava l’assenza di pari diritti. Tuttavia, nella scala di poteri che si veniva a creare nella società americana, non erano solo le donne bianche di classe media a soffrire le discriminazioni sessiste.

Mentre Betty Friedan, e le altre femministe prima di lei, si lamentavano della mistica femminilità e della gabbia dorata che confinava tutte le donne nel ruolo di casalinghe, i dati mostravano che la maggioranza della forza lavoro del paese era costituita da donne, la maggior parte afroamericane. Donne che, dati i lavori che erano costrette ad accettare, avrebbero considerato libertà il diritto di restare a casa.

Il privilegio bianco

Non era solo la discriminazione di genere a impedire alle donne privilegiate di lavorare fuori casa, era anche il disprezzo per il tipo di impieghi a loro disposizione. Più avanti, bell hooks, in risposta alle affermazioni della Friedan scrisse:

She ignored the existence of all non-white women and poor white women. She did not tell readers whether it was more fulfilling to be a maid, a babysitter, a factory worker, a clerk, or a prostitute, than to be a leisure class housewife.[2]

Il mancato riconoscimento di un’esperienza di genere diversa da quella vissuta individualmente portò le femministe bianche a costruire un movimento fondato su una fallacia. Tutte le donne vivono lo stesso tipo di oppressione. Senza la decostruzione del razzismo e del suprematismo che la società occidentale ci lascia interiorizzare, le femministe bianche invitavano tutte le donne a far parte del movimento inconsapevoli della loro percezione di possederlo. Come si può combattere per l’uguaglianza tra i sessi se non si riesce a ottenere equità neanche nella dimensione intra-categoriale?

Le donne bianche nella gerarchia sociale del sistema patriarcale ricoprono una posizione peculiare. In quanto donne sono soggette a livello strutturale alla discriminazione sessista e all’ordine patriarcale, tuttavia, in quanto bianche posseggono dei privilegi che non sono concessi alle persone con altra etnia. In questo senso, le femministe bianche sono state e possono essere oppressed oppressor. Essendo persone la cui identità risiede nell’intersezione tra privilegio e marginalizzazione, una loro caratteristica identitaria permette loro di trarre privilegi, mentre un’altra le costringe all’oppressione.

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L’intersezionalità come arma

Se nella gerarchia sociale al primo posto risiede l’uomo bianco cis, al secondo troviamo la donna bianca cis che condivide con lui il famoso white privilege. Questo tipo di posizione non comporta l’inevitabile condanna delle donne bianche per una caratteristica di cui non sono colpevoli, tuttavia, affinché l’attivissimo femminista sia inclusivo e intersezionale bisogna saper distinguere tra whiteness e whiteliness.[3] Questa distinzione è proposta da Marilyn Frye, il termine whiteliness contiene l’analogia con il concetto di mascolinità e rappresenta l’insieme schematico di comportamenti socialmente indotti che tutte le persone bianche attuano nei confronti di chi possiede un’altra etnia. Nessuno sceglie la propria etnia, ci dice Marilyn Frye, non si decide di nascere bianchi, questa è la caratteristica che chiamiamo whiteness. La centralizzazione e la supremazia data alla prospettiva e all’impegno delle persone bianche rispetto a quelle di altri gruppi etnici è invece ciò che definiamo whiteliness.

La monopolizzazione della narrazione sulle discriminazioni da parte delle femministe bianche evidenzia il tipo di uso che hanno scelto di fare del loro privilegio, invece di sfruttare le loro voci come amplificatore per le voci di tutte le identità marginalizzate hanno scelto di far prevalere la loro whiteliness.

Le donne bianche nel movimento femminista devono necessariamente cogliere il potenziale del privilegio che posseggono, devono sfruttare l’intersezione che attraversa la loro vita come arma per la liberazione non di alcune, ma di tutte le donne. Bisogna tenere a mente che «all inequality is not created equal». Dunque, il femminismo non può essere bianco, deve invece essere promotore di un’uguaglianza autentica riconoscendo che il genere interseca altri fattori discriminatori e che questi influenzano l’esperienza identitaria degli individui.

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[1] bell hooks, Il femminismo è per tutti, una politica appassionata, Traduzione di Maria Nadotti, Tamu Edizioni: Napoli, 2015, p.85.

[2] bell hooks, Feminist Theory: From Margin to Center, South End Press: Boston, 1984, p.2.

[3] Marylin Frye, White women feminist, in Moral Issues in Global Perspective Volume 2, 1992.

Rachele Scardamaglia

Sono Rachele Scardamaglia, ho 23 anni e sono nata a Palermo. Ho conseguito la laurea triennale in filosofia all'Alma Mater di Bologna, poi ho scelto in modo un po' inusuale di tornare a Palermo per laurearmi in Scienze filosofiche e storiche. Durante la magistrale, ho approfondito il tema dei gender studies e mi sono avvicinata al mondo dell'attivismo transfemminista. Adesso sto scrivendo un progetto di ricerca per partecipare al dottorato in Studi di genere promosso dall'università di Palermo. Amo la mia terra e non voglio scappare.

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