C’è chi ne ha parlato denunciando, chi ha sbranato lo schermo e il suo fruitore, chi ha ricercato scomodità, chi ha giocato di facilità; chi ha scelto la rabbia, chi la compassione, chi il più nero pessimismo; c’è chi ne ha fatto un simbolo, chi un martirio, chi un vessillo. E poi c’è chi le ha trattate con amore, le sue periferie.
Esiste un itinerario tanto semplice, se non scontatamente banale, che dall’estrema periferia di Roma si muove verso Parigi e le sue banlieue, trascinandosi stanco ma vibrante di vita tra i cult che di questo cinema hanno segnato dei punti indelebili, rendendo la scelta di sentieri alternativi un’impresa di difficile percorribilità. E allora sia perdonata la semplicità.
La trilogia di Claudio Caligari e L’odio di Mathieu Kassovitz sono tappe, soste e punti d’arrivo di un viaggio delicato, consumato, sconsolato, passionale e desolante tra le pulsioni più periferiche dell’umanità. Su tutti si è detto tanto, del modo in cui si sfiorano non ci si stupisce più, eppure di smettere di esaltarne la bellezza ancora non se ne vuole sapere.
Sradicamento e autenticità saranno materia di questa esplorazione sconfitta dei tempi (e dei luoghi) che animano, infiammano, ospitano e respingono l’umanità di quei «marziani che hanno sbagliato pianeta».
Per orientarsi: le storie e la messa in scena
Tanti sono i punti in cui le storie della trilogia di Claudio Caligari e L’odio di Mathieu Kassovitz si toccano, sovrapponendosi e ramificandosi in direzioni di racconto che scelgono, oculatamente, su cosa mettere l’accento. Un aspetto le accomuna: il tono registico. La messa in scena delle quattro opere non si accontenta di soluzioni banali ma fa dell’immagine un materiale giocoso da plasmare in variazioni eccentriche, virtuose, innovative, mai fini a se stesse ma sempre continuative e funzionali alla resa complessiva della narrazione. Panoramiche, split screen …