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Io tu noi, Lucio: cos’è Battisti per noi

Il 5 marzo 1943 nasceva Lucio Battisti. Netflix lo celebra. E anche noi.

4 minuti di lettura

I primi di marzo sono giorni in cui il mito della grande musica italiana risuona con particolare vigore. Lucio è il nome, il 1943 l’anno. Due artisti dallo stesso nome e dalla stessa importanza per la memoria collettiva musicale italiana condividono, a distanza di un solo giorno, i festeggiamenti per il loro ottantesimo compleanno. Oggi, 5 marzo, l’uomo di cui si parla è Lucio Battisti. Per celebrarlo, Netflix propone tra gli scaffali del suo diversificato catalogo, un docu-film di Indigostories, intitolato Io tu noi, Lucio, diretto da Giorgio Verdelli e prodotto da Alessandro Lostia, già andato in onda nel 2020 su Rai 2. Il documentario esplora la vita e la carriera di Battisti attraverso l’alternarsi delle voci di artisti diversi, guidate dal racconto di Sonia Bergamasco, che traccia il quadro della vita del cantante.

Quel che conta è la musica

Il film su Netflix segue l’ordine cronologico degli eventi della carriera di Lucio Battisti. La distanza del suo modo di fare e di intendere la musica destabilizza il panorama artistico italiano già dagli esordi, nella seconda metà degli anni Sessanta. Si richiama alla musica inglese, al rhythm & blues, al soul e a cantanti come Ray Charles, Otis Redding, Smokey Robinson, imitandoli anche nella loro presenza scenica sul palco. La sua voce è strana, a volte gracchiante, non da subito apprezzata. Tutto ciò, unito alla tematica prevalente dei testi da lui cantati – l’amore, o meglio, l’emozione – stride con la musica di quegli anni, caratterizzata invece, da un lato, dal bel canto alla Claudio Villa e, dall’altro, da tematiche via via sempre più impegnate politicamente. È Giulio Rapetti, in arte Mogol, a parlare dell’opposizione di Battisti ad un pubblico di ascoltatori non abituati a questo modo di fare musica. Battisti stesso disse: «Io propongo delle cose. Vi emozionano, vi piacciono, sì o no?», seguito dal suo fare un po’ irriverente: «Bene, mi fa piacere. Sotto maestro con la base!». Quel che gli interessava era comunicare attraverso la musica, nulla più. Proprio per questo si parla anche di come certa stampa abbia ipotizzato una simpatia del cantante per il fascismo, solo a causa del distacco dei suoi testi dagli eventi e dai trambusti della scena politica dell’epoca. Lucio si è sempre scontrato con il carattere invasivo dei media e lo ha tenuto a distanza, alimentando la curiosità di chi voleva a tutti i costi una figura da commercializzare in toto. L’unica cosa veramente certa era la sua capacità di suscitare emozioni. Così Verdelli quasi si diverte a mescolare le voci di Battisti e Mia Martini sulle note di Emozioni, entrambi struggenti nel canto e slegati dalla frequentazione della società artistica del tempo.

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Nel docufilm su Netflix, Lucio Battisti secondo gli altri

Il fare ipotesi e il crearsi una propria idea su chi fosse veramente Lucio Battisti caratterizzerà sempre il suo mito. L’intero documentario è, infatti, un grande racconto che gli altri delineano su una personalità poco avvezza alle luci della ribalta, come quella di Lucio Battisti. Il titolo (che riprende quello del suo album Io tu noi tutti, pubblicato nel marzo del 1977) suggerisce quasi un circolo che si è aggregato intorno alla sua figura, un po’ per i temi da lui trattati, un po’ per la sua riservatezza, che ha suscitato un desiderio da parte degli altri di capirlo (e di carpirlo). I primissimi attacchi di chitarra della famosissima Canzone del sole aprono le tende dello scenario in cui si stagliano diversi personaggi, come Carlo Verdone, Niccolò Fabi, Paola Turci, Ron, Eugenio Finardi, Franco Mussida, Gianna Nannini, Colapesce e Dimartino, e altri ancora. Tutti parlano di chi è Lucio, ma soprattutto di chi è per loro, secondo loro. Verdone lo definisce un grande innovatore, affermando: «l’Inghilterra ha avuto i Beatles, noi Lucio Battisti». Tutti passano in rassegna i suoi successi, suonano le sue canzoni, tratteggiano alcuni ricordi che hanno di lui. Primo fra tutti, Mogol, che meglio di chiunque altro ha tentato di interpretarlo e di tradurre in parole il pensiero di Lucio Battisti. Mogol ha cercato di far dialogare musica e testo, in modo tale che potessero dire le stesse cose: solo così – afferma lui stesso – può arrivare l’emozione. Il direttore artistico del Blubar Festival, Maurizio Malabruzzi, mostra, attraverso le copertine dei suoi album, come Battisti sia stato uno che non è mai voluto apparire così tanto: delle mani, dei piedi, la pioggia, il fuoco. Di lui, pochissimo. Anche la sfuggevolezza nel delineare Battisti all’interno di un genere viene raccontata bene all’interno del docu-film. Nel corso della sua carriera passerà da un genere all’altro, alla continua ricerca del ritmo, vero motore della sua produzione artistica. Dal soul degli esordi, alla svolta verso le atmosfere progressive e jazz-rock ne Il nostro caro angelo, all’abbandono ai suoni e al ritmo in Anima Latina, fino a una congiunzione con il funk e la disco music scoperta dopo un viaggio in America e affiorata in un album come Lucio Battisti, la batteria, il contrabbasso, eccetera.

Il suo canto libero

Quella di Battisti, insieme a Mogol e poi, negli ultimi anni, con Pasquale Panella, è sempre stata un’evoluzione verso la ricerca di nuove modalità per comunicare. Mussardi afferma che la loro maestria risiedeva in quella capacità di prendere l’ascoltatore e di trasportarlo in dei luoghi. Finardi ritiene che sia l’autore che «con più sottigliezza ha cantato le fragilità dell’animo maschile». Tutti hanno un debito in sospeso con Lucio, tutti gli devono in fondo qualcosa. È, di fatto, in quel “noi” che risiede il senso del documentario. L’astuzia di Giorgio Verdelli consiste nel mostrare allo spettatore l’eredità che Lucio Battisti ha lasciato in tutti noi. Come un senso di devozione nei confronti di un artista che ha costruito un patrimonio inestimabile, come lo definisce Niccolò Fabi un’«enciclopedia», senza volere indietro un ritorno materiale. Nel corso dei suoi 36 anni di carriera si è esibito in soli venti e rari concerti, rifiutando anche un’intervista per Enzo Biagi e una richiesta di Gianni Agnelli di esibirsi al Teatro Regio di Torino in uno spettacolo sponsorizzato dalla FIAT. Il suo è un canto autenticamente libero. Un canto per gli altri, a cui abbandonarsi e lasciarsi suonare dal profondo.

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Margherita Coletta

Classe 1998. Laureata in Letteratura Musica e Spettacolo, con una tesi in critica letteraria. Attualmente studia Editoria e Giornalismo a Roma. Le piace girovagare e fare incontri lungo la via. Appassionata cacciatrice di storie, raccontagliene una e sarà felice.

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