Sin dalle sue origini, è noto che la filosofia ha assunto il ruolo di essere capace di condurre, praticamente, un’esistenza ben vissuta. I Greci ne sono stati maestri e, nelle parole di Socrate riportate da Platone nel Fedone, si trova l’immagine che, in maniera definitiva, ha fissato la concezione antica (ma poi moderna e contemporanea) del sapere più alto di tutti: filosofare è imparare a morire. Per ben vivere, insomma, è necessario sapere e apprendere a morire, e a farlo nel migliore dei modi possibili. E questo per una semplice ragione: che l’orizzonte della finitudine umana, e dunque ciò che lo differenzia essenzialmente dall’animale, è sancito non solo dalla sua mortalità, ma dalla consapevolezza di essa. Eppure, lungo tutto il corso del pensiero occidentale, sotterraneamente e al fianco di questa tendenza dominante, una riflessione sul ruolo del polo opposto a quello della morte – la nascita – è venuta sviluppandosi. E questo per una semplice ragione: se rivalutata a partire dal punto di vista della nascita, l’intera esistenza umana assume un nuovo volto, e con essa i caratteri fondamentali che le sono attribuiti, primo fra tutti quello della libertà.
Se è vero infatti che la morte è un nulla che inghiotte e porta con sé ciò che incontra, e che quindi la libertà – nella forma in cui è stata spesso descritta – è un nulla che annulla le diverse scelte possibili, l’umano in quanto nato è anzitutto un essere radicato al suo luogo di provenienza. Ovvero, il grembo materno. Prima di essere mortale, è un essere che ha un luogo, un luogo subìto passivamente, perché non da lui deciso, ma che lo decide.
Difatti, in un certo senso sono passivo rispetto alla mia nascita, non ne sono il soggetto o l’artefice, ma la subisco e continuo a portarla con me come un passato che non mi è concesso di recuperare, ma che mi vincola, potendo, nonostante ciò, affermare la mia libertà proprio a partire da esso. Questa passività inaggirabile è l’indeterminatezza che fonda ogni presente e si mantiene al di là della coscienza ne…