Dino Compagni: un uomo del «popolo grasso»
La politica per Dante e i suoi contemporanei è stata oggetto di analisi approfondite, accurate, talvolta addirittura commoventi. Il Sommo poeta stesso scelse di raccontare tantissimo della sua percezione personale anche nella Commedia.
Nel frattempo c’era chi viveva quei decenni di fermento con l’esplicita intenzione di tramandarlo ai posteri nel modo più accurato possibile: Ildebrandino, detto Dino Compagni (nato a Firenze nel 1246 o 1247, ma secondo alcuni nel 1260, e morto nella stessa città nel 1324), di mestiere poeta e cronachista, politico e mercante. Non deve stupirci questa serie di professioni, era cosa frequente che i mercanti delle città in cui la borghesia era in larga espansione approfondissero gli studi ben oltre le conoscenze minime richieste dalla pratica della mercatura; soprattutto se, come Dino, provenivano da famiglie appartenenti al cosiddetto «popolo grasso», il ceto di mercanti e banchieri che stava appena sotto la nobiltà nella scala sociale, nonostante molti suoi membri fossero ormai decisamente più ricchi dei titolati; insomma, più o meno quella che abbiamo imparato a chiamare borghesia e che proprio in quegli anni stava cavalcando l’onda del successo (in questo articolo, per semplificare, borghesia e popolo saranno termini interscambiabili, nonostante il dibattito storiografico sulla questione sia piuttosto acceso).
Dino visse a Santa Trinita e risulta iscritto per tutta la vita all’Arte di Por Santa Maria, che riuniva commercianti e produttori di indumenti, tessuti e accessori, soprattutto in seta. Dal primo decennio del Trecento appare effettivamente tra i mercanti esportatori. Non solo: come tanti suoi concittadini era anche membro di una confraternita, cioè associazioni di fedeli che praticavano opere di ammortizzazione sociale e carità; nel suo caso fu più volte al comando della confraternita di Orsanmichele.
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Un guelfo bianco che scampò l’esilio a vita
Il nostro Dino ebbe una carriera notevole: fu priore (una delle massime cariche cittadine) nel 1289, gonfaloniere di giustizia (importante figura che difendeva le istituzioni del popolo contro le prevaricazioni nobiliari) quattro anni dopo e di nuovo priore nel 1301. Anche quando non ricopriva cariche preminenti fu sempre tra i consiglieri delle varie istituzioni comunali che animavano la vita politica fiorentina. Conobbe solo una fase di difficoltà, quando nel 1295 Giano della Bella – fautore degli Ordinamenti di Giustizia del 1293, con cui la borghesia fiorentina tentò di escludere la nobiltà dalla vita politica – venne allontanato dalla città e Dino, a lui vicinissimo, dovette seguirne la sorte. Rientrò in città solo nel 1300. Politicamente potremmo considerarlo appartenente a un’area vicina a Dante, tra i moderati guelfi bianchi, sostenitore quindi di una divisione netta dei doveri (e dei poteri!) tra l’imperatore e il papa, affinché quest’ultimo fosse anche più concentrato sui suoi incarichi morali e spirituali di quanto non lo fosse in quell’epoca.
Qualcuno si starà chiedendo a questo punto: come poté Dino Compagni evitare lo stesso esilio a vita che nel 1302 aveva stravolto la vita di Dante, a lui così simile nella vita e condotta politica? A salvarlo fu una legge che impediva di valutare l’operato dei priori (per valutare le conseguenze della loro amministrazione e richiedere eventuali risarcimenti o addirittura intentare processi) prima che fosse trascorso un anno dal loro mandato, da lui saggiamente richiamata nei momenti più agitati di quell’anno tanto caro ai dantisti.
A Firenze i guelfi bianchi si riunivano intorno alla famiglia dei Cerchi, che proprio tra il Duecento e il Trecento si contendevano il controllo della città con i guelfi neri, più lontani dalla borghesia e legati alla nobiltà tradizionale, desiderosi di vedere ingerenze più forti nella vita politica da parte del papa. Di questa fase concitata proprio Dino Compagni fu testimone diretto ed efficace nella Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi. È un capolavoro di piacevolissima e non difficile lettura, nonché sicuramente un approccio alla lingua volgare sottovalutato anche nei programmi scolastici.
«Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi»: una testimonianza
Vi descrisse gli avvenimenti fiorentini partendo da un rapido riassunto della rivalità tra guelfi e ghibellini dall’inizio del Duecento e intensificando la narrazione all’altezza della battaglia di Campaldino del 1289, quando i guelfi prevalsero e si ritrovarono coinvolti nelle loro lotte intestine; la scrittura si interrompe nel 1312, forse quando la morte dell’amato imperatore Enrico VII («l’alto Arrigo» dantesco) spense ogni speranza di ripresa del progetto dei guelfi bianchi. Dino Compagni morì nel 1324, senza però che il suo lavoro trovasse subito il successo nel largo pubblico: d’altronde era la corrente rivale a dominare sulla città, e la Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi metteva in cattiva luce troppe famiglie tra quelle che si spartirono il potere dal Trecento in avanti, quindi circolava su piccola scala, tra gli intimi dell’autore. Nella Cronica è esplicita e chiara la posizione di Dino Compagni, che tuttavia non risparmia critiche a nessuno, e dichiara anzi di aver fatto ricorso a testimoni oculari per poter descrivere gli eventi più controversi con accuratezza: «e quelle [cose] che chiaramente non viddi, propuosi scrivere secondo udienza.»
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La finalità è (Dino mi perdoni per la scelta del termine) nobilissima e dichiarata fin dall’inizio: «scrivere il vero delle cose certe che io viddi e udì». Egli si proponeva umilmente di lasciare alle nuove generazioni testimonianza di quel tempo in cui tanti non avevano esitato a mettersi a rischio pur di costruire un futuro migliore e più bilanciato per Firenze, arrivando a scusarsi per le lacune causate dalla convinzione che «altri scrivesse», che anche altri suoi contemporanei avrebbero lasciato delle testimonianze. Con le sue parole, Dino scrive «a utilità di coloro che saranno eredi de’ prosperevoli anni», vedendo dunque un futuro positivo per la sua città nonostante le enormi difficoltà di cui era testimone – e sul lungo termine non si sbagliava di troppo.
Durante il XIV secolo i conflitti intestini tra le fazioni si sarebbero addirittura intensificati, ma gli sforzi complessivi dei fiorentini sarebbero andati comunque verso l’affermazione nella sua regione. La città avrebbe raggiunto nel giro di pochi decenni un predominio quasi assoluto in Toscana, dimostrando anche la capacità di riorganizzarsi di fronte a tutti i traumi che attraversò, dai fallimenti dei colossi bancari di Acciaiuoli, Bardi e Peruzzi alla Peste nera. Sfruttando l’intensa e appassionata attività politica di cui ci sono già tutti gli elementi nelle parole del Compagni, tante famiglie del popolo furono in grado di svoltare la propria sorte e quella della storia italiana, culminando nel Rinascimento.
La Cronica di Dino Compagni è uno sguardo intenso e realistico nella Firenze in cui la borghesia aveva imparato ad alzare la voce, a far capire a tutti che i protagonisti erano loro, e che lo sarebbero stati a lungo.
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