Nemmeno il 2022 ci ha lasciato tirare un sospiro di sollievo. La percezione che il mondo stia impazzendo sembra essere confermata dai fatti che, come scosse, hanno reso il 2022 un anno particolarmente turbolento.
L’invasione russa dell’Ucraina ha sconvolto lo scenario internazionale, l’UE si è compattata contro Mosca, ha imposto sanzioni e si è trovata alle prese con una crisi energetica scatenata dalla decisione di realizzare l’indipendenza energetica dalla Russia. Il Qatargate poi ne ha scosso una delle istituzioni più importanti, il Parlamento Europeo, concludendo “in bellezza” il 2022. Anche fuori dall’Europa il mondo resta instabile: in Medio Oriente scoppiano rivolte dalle aspirazioni rivoluzionarie che mirano a sovvertire la teocrazia iraniana, in Sudamerica sembra tornare la sinistra con i risultati elettorali in Colombia e Brasile, ma l’instabilità politica in Perù evidenzia la complessità di un continente imprevedibile, in Cina Xi Jin Ping consolida il suo potere ed entra ufficialmente nella storia con un terzo mandato, ma le sfide che lo attendono sono ardue, dalle proteste interne contro la politica zero-covid al confronto internazionale con gli USA che ha come dossier chiave il destino di Taiwan.
Sul fronte dei diritti civili altrettante piroette, soprattutto per quanto riguarda le conquiste o le disfatte nelle lotte femministe: negli USA viene abrogata Roe contro Wade, la storica sentenza che garantisce il diritto all’aborto a livello federale, qualche mese dopo in Italia viene eletta la Prima presidente del Consiglio donna, eppure la vittoria di Giorgia Meloni non viene considerata dai progressisti un passo avanti. Poco con cui consolarsi anche riguardo alla grande sfida dei nostri tempi: la lotta al cambiamento climatico. La COP27 si conclude con un nulla di fatto in termini di sforzi ulteriori per ridurre le emissioni, ma una buona notizia arriva con l’istituzione del Loss and damage fund.
Prima di chiederci, tra entusiasmo e timori, cosa ci aspetta l’anno prossimo guardiamoci indietro ripercorrendo un 2022 fatto di fuochi d’artificio.
24 febbraio: la Russia invade l’Ucraina
Il più grande evento del 2022, forse, è il ritorno della guerra in Europa e il conseguente sconvolgimento dell’equilibrio internazionale. Dopo anni di tensioni tra Russia e Ucraina, già sfociate nella guerra in Donbass e Crimea del 2014, il 15 febbraio 2022 la Duma riconosce le repubbliche separatiste russofone di Doneck e Lugansk. L’escalation, nel giro di pochi giorni, porta all’invasione russa dell’Ucraina, il 24 febbraio.
Per Vladimir Putin l’invasione è giustificata dalla “pressione” esercitata dalla NATO e dal blocco occidentale sulla Russia attraverso il progressivo avvicinamento ai paesi confinanti, ma l’ONU e la UE appoggiano da subito il presidente ucraino, Volodymir Zelensky. Le relazioni diplomatiche e l’equilibrio geopolitico si rompono irreparabilmente. Il blocco occidentale si unisce, rompe le relazioni commerciali con la Russia e invia armi ed aiuti all’Ucraina, mentre Cina e India temporeggiano. L’UE impone nuove sanzioni alla Russia, nonostante le resistenze di alcuni stati membri come l’Ungheria. Putin si ritrova in poco tempo solo contro tutti, in un ordine mondiale infranto e in difficoltà a gestire l’invasione e il dissenso interno. I progetti di collaborazione, commercio e dialogo tra paesi UE e Russia si interrompono e, in Italia, anche i partiti più sovranisti voltano i tacchi di fronte a Putin, che pure avevano difeso in precedenza. È difficile, oggi, dire come si evolverà la situazione in futuro, come si risolverà il conflitto russo-ucraino o quale ordine mondiale prevarrà in futuro. Di mezzo, però, c’è un paese, l’Ucraina, e un popolo, quello ucraino, dilaniati da questo conflitto, tra bombardamenti, morti e profughi (quasi tre milioni, secondo l’UNHCR) costretti ad abbandonare casa, patria, famiglia e vita.
Leggi anche:
Il reportage. Le vite interrotte dei rifugiati ucraini al confine
Perché è importante…
Vedere di nuovo la guerra sul suolo europeo ha fatto impressione a tutti, anche a chi negli anni Novanta era già grande abbastanza per considerare i conflitti in Jugoslavia come notizie di attualità. Anche se non ce ne siamo accorti sono passati tanti anni e tutto ciò che si trovava a est della cara vecchia cortina di ferro che si districava da Stettino a Trieste, si è avvicinato a noi, anche solo culturalmente – per non parlare dell’ambito istituzionale, che forse più di tutto ha spinto la Russia all’attacco – e trattiamo sempre meno le vecchie repubbliche sovietiche su suolo europeo come luoghi lontani, in un processo simile a quello che ha riguardato i Balcani nell’ultimo ventennio. Ci eravamo abituati a vivere la violenza nella nostra civile e impeccabile Europa esclusivamente come frutto del terrorismo e della devianza, di qualcosa che non riguardasse due diverse nazioni e dunque due popoli, perché proprio sulla concordia tra i popoli si basa l’intero concetto di Unione Europea; e invece ci siamo ritrovati a tifare per gli ucraini contro gli invasori.
A prescindere dagli esiti della guerra forse sarà importante ritornare su alcuni concetti che pensavamo (speravamo?) abbandonati nel Novecento e non più di nostra competenza, forse nazioni e popoli stanno urlando che vogliono esistere ancora nel mondo globalizzato; nel frattempo la Russia si è dimostrata debole e isolata, mettendo sotto gli occhi di tutti quanta distanza può esserci tra governanti e governati. È cambiato anche il modo di fare la guerra, ma questo non ha diminuito la violenza né il fatto che a rimetterci in questi casi siano sempre gli ultimi.
19 giugno e 31 ottobre: Petro vince le elezioni colombiane e Lula quelle brasiliane. La Sinistra torna in Sudamerica?
Il 19 giugno la Colombia ha eletto il suo primo presidente di sinistra, Gustavo Petro, che ha vinto il ballottaggio battendo il suo sfidante Rodolfo Hernández, del partito populista. Petro è stato sindaco di Bogotà, la capitale della Colombia, e si era già candidato due volte alle elezioni. Le sfide più grandi con cui era sceso in campo erano la promessa della fine delle persecuzioni politiche, un’importante riforma fiscale, l’istruzione superiore gratuita e la fine delle nuove esplorazioni in cerca di petrolio e gas. In generale i risultati del centrodestra a queste ultime elezioni sono stati molto scarsi, a dimostrazione di un cambio di rotta importante nell’opinione pubblica del paese.
Cambio di rotta che è avvenuto anche in Brasile con un’altra importante vittoria, quella di Ignacio Lula Da Silva contro Jair Bolsonaro. Lula ha vinto il suo terzo mandato complessivo da presidente con il 50,9% di voti. Lula è un simbolo della sinistra del sud America, ma anche mondiale e torna in campo dopo l’accusa di corruzione, motivata politicamente e poi annullata. La paura più grande era che Bolsonaro decidesse di non riconoscere la vittoria, ma anche se le proteste da parte dei suoi sostenitori ci sono state, la legalità del voto sembra essere stata rispettata. Il Sudamerica si sposta quindi un po’ a sinistra, un trend che aveva seguito anche il Perù con l’elezione di Pedro Castillo nel 2021, che ad oggi però è sconvolto dalle proteste dei sostenitori dell’ormai ex-presidente. Per evitare l’ennesimo tentativo di impeachment, Castillo decide di sciogliere il parlamento il 7 dicembre e viene arrestato perché accusato di «auto-golpe», a quel punto i suoi sostenitori scendono in strada, la polizia fa lo stesso per reprimere le proteste e iniziano gli scontri.
Leggi anche:
Capire la vittoria di Lula
Perché è importante…
Se dovessimo scommettere su un luogo per il successo della sinistra o del socialismo, in tanti punteremmo sull’America meridionale. Eppure rimane un luogo di contraddizioni apparentemente insuperabili, ormai così radicate da rovinare ogni tentativo di riforma – o rivoluzione. Alcuni Paesi sembrano aver perso il loro treno, complici le ingerenze straniere più o meno evidenti che ormai fanno tristemente parte della storia sudamericana. I prossimi governanti si troveranno davanti il compito di ricostruire un tessuto sociale sfilacciato dalle tensioni, consapevoli del fatto che in certi luoghi del mondo il cambiamento arriva prima, nel bene e nel male.
24 giugno: «Roe contro Wade», la sentenza che sanciva il diritto d’aborto negli USA, viene abolita
Il 24 giugno del 2022 la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha votato a favore dell’abrogazione del diritto all’aborto a livello nazionale con 6 voti favorevoli e tre contrari. La decisione ha ribaltato la sentenza Roe contro Wade del 22 gennaio 1973 che aveva garantito il diritto costituzionale della donna di porre termine alla gravidanza. Dopo la nuova pronuncia della Corte il paese si è spezzato in due scatenando dissensi e consensi e riempiendo piazze e affollando uffici. Il presidente Joe Biden ha commentato il fatto come «giorno triste» invitando la Corte a ritrattare e a rendere costituzionale il diritto di scelta mentre dall’altro lato l’ex-presidente Donald Trump ha gridato alla vittoria.
La scelta di abrogare Roe contro Wade ha generato due conseguenze: il divieto totale o parziale dell’uso di farmaci abortivi e la centralità del ruolo dei giudici locali e statali che dovranno scegliere caso per caso se consentire l’interruzione di gravidanza. Per l’ottenimento di tale diritto potranno trascorrere settimane con il rischio di influenze politiche ed opinioni personali di singoli giudici. Ad oggi secondo uno studio di Guttmacher sono 43 gli stati a vietare l’aborto in America dopo un determinato periodo, causando un pericolo per la sicurezza riproduttiva della donna. Inoltre dopo la sentenza del 24 giugno si è acceso un dibattito in tutto il mondo sul diritto all’aborto affrontato peraltro anche in Italia, dove il diritto all’aborto è regolamentato dalla legge 194/78, con denunce nei confronti di medici obiettori di coscienza e di violenza ostetrica.
Leggi anche:
Diritto all’aborto: dagli USA all’Italia, come siamo messi?
Perché è importante…
Più di tanti altri anni, il 2022 ci ha insegnato a non dare mai niente per scontato, soprattutto in un’epoca di conservatorismo rampante che i più ingenui di noi credevano facilmente arginabile. E così nella terra della libertà si è arrivati a negare una delle conquiste più importanti nella storia dei diritti civili. Gli strascichi non sono banali, certe cose corrono veloci sull’Atlantico e una discreta parte degli elettorati europei è affascinata da soluzioni simili, che permetterebbero per l’ennesima volta di nascondere la testa sotto la sabbia al posto di affrontare le problematiche con obiettività e buonsenso (e magari laicità). In troppi non si sono resi ancora conto di quanto centrali saranno gli ambiti della gravidanza e della procreazione nel corso del prossimo millennio. Nel prossimo periodo dobbiamo aspettarci uno scontro ideologico ancora più aspro, e purtroppo ancora più becero.
26 agosto: il prezzo del gas raggiunge il picco e conferma una crisi energetica in atto in Europa
Il 26 agosto il prezzo del gas sul mercato internazionale tocca il picco di 343 euro per megawattora. A far impazzire i prezzi, che erano già in aumento dalla ripresa post-covid, sono stati gli effetti della guerra in Ucraina. La Russia era il principale fornitore di gas per l’Europa, che dopo l’invasione ha imposto pesanti sanzioni e articolato un piano di diversificazione degli approvvigionamenti per raggiungere l’indipendenza energetica da Mosca. A far schizzare i prezzi del gas sono stati proprio i timori di un’interruzione unilaterale delle forniture da parte del Cremlino. L’Unione Europea, nel frattempo, ha acquistato sempre meno gas russo, passando dal 45% del totale degli import nel 2021 a circa il 10% nel 2022.
I prezzi hanno visto un’impennata proprio a fine agosto a causa dell’atteggiamento che i paesi UE hanno assunto sul mercato: l’avvicinarsi dell’autunno ha fatto diventare immediata l’urgenza di riempire gli stoccaggi entro fine estate, portando gli acquirenti sul mercato internazionale «a comprare a qualsiasi prezzo», quindi i prezzi a crescere esponenzialmente.
Perché è importante…
I più ferrati in storia contemporanea andavano col pensiero al 1973 già alle prime avvisaglie di crisi energetica. Ma paragonare le due situazioni rischia di essere solo un esercizio di stile, se non addirittura una sviolinata ai lati più romanticamente illusori del capitalismo, come la continua crescita o l’arricchimento a portata di mano per chiunque. Quando nei primi anni Settanta l’aumento incontrollato del prezzo del petrolio travolse le economie, si trattava di una violenta battuta d’arresto dopo i trente glorieuses, i trent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale di crescita continua; per il sogno capitalista fu solo un rallentamento, incapace di far invertire la rotta con decisione. Solo i più lucidi cominciavano a pensare alle alternative sul piano energetico. Questa volta arriviamo da una quindicina d’anni di totale stravolgimento che stanno estremizzando le differenze tra le persone, mentre una vaga sensazione ambientalista «di massa» sembra quasi tangibile.
8 settembre: muore Elisabetta II, la regina più longeva del Regno Unito
120 Paesi visitati, 15 primi ministri inglesi ricevuti, 5 pontefici conosciuti personalmente, 70 anni di regno. La vita della Regina Elisabetta II, deceduta l’8 settembre 2022, non è una questione di numeri, eppure i numeri sono forse l’elemento migliore per comprendere la portata di un pezzo di storia del Novecento staccatosi improvvisamente dal mosaico del nuovo millennio. Un mosaico in cui il tassello della monarchia, secondo alcuni, era inadatto da già molti anni e che difficilmente sarà necessario rimpiazzare. Resta una vita che ha assistito da protagonista e per caso (alla nascita, la regina Elisabetta non era nella linea diretta di successione al trono) alla storia di un Paese che ora si troverà a fare i conti con un sempre maggior isolamento dall’Europa e dai Paesi del Commonwealth, alcuni dei quali stanno ancora elaborando gli effetti di un passato coloniale.
Perché è importante…
Di pochi giorni fa è la presentazione del nuovo corso di banconote britanniche con il faccione di re Carlo III – e come per ogni buon sovrano, il ritratto lo abbellisce con una chioma decisamente più folta del vero. Gli oppositori della monarchia sono diventati una realtà impossibile da ignorare, che unita a chi non ha gradito l’uscita dall’UE (al momento la Brexit è costata 33 miliardi di sterline di perdita per il Regno Unito) ha generato una miscela pericolosa per la stabilità del regno. Elisabetta II era una figura rassicurante, che proprio grazie all’enorme stima e simpatia di cui godeva anche all’estero riusciva a sopire ogni voce di dissenso; Carlo III non è (e non sarà mai) altrettanto amato, e la sensazione è che sarà così anche per i suoi successori. L’incoronazione del prossimo maggio avrà un peso gigantesco sulle coscienze, riuscirà a nascondere le folli contraddizioni della monarchia?
15 settembre: scoppiano le proteste in Iran dopo la morte di Mahsa Amini
Dopo l’arresto e la morte in custodia della polizia morale della ventiduenne curda Mahsa Amini, l’Iran si infiamma di proteste. Le donne iraniane scendono in strada togliendosi l’hijab e tagliandosi ciocche di capelli in segno di protesta, gli uomini le supportano e in poche settimane le manifestazioni diventano un tentativo rivoluzionario volto a sovvertire il regime degli Ayatollah. La repressione però arriva tempestiva. Le morti tra i manifestanti si susseguono nelle settimane di rivolte che scoppiano in oltre una settantina di città con epicentro il Kurdistan iraniano e la regione meridionale del Baluchistan, oltre alla capitale Teheran. A dicembre arrivano le prime esecuzioni di manifestanti: condannati a morte perché ritenuti colpevoli di «guerra contro Dio», i ventitreenni Mohsen Shekari e Majidreza Rahnavard finiscono impiccati.
Secondo Amnesty International almeno altre venti persone sono a rischio di pena di morte per fatti collegati alle proteste. Iran Human Rights a fine novembre contava almeno 448 morti avvenute durante gli scontri tra manifestanti e forze iraniane, tra cui oltre 60 bambini. Chi è sceso in piazza e non è rimasto ucciso il più delle volte è finito in carcere: si parla di oltre 15.000 manifestanti attualmente detenuti. Le prigioni iraniane si affollano e diventano, in alcuni casi, esse stesse luoghi di protesta, come è successo il 16 ottobre nella rivolta al carcere per oppositori politici di Evin, a Teheran, culminata con un incendio e la morte di 4 detenuti e 61 feriti.
Leggi anche:
Perché in Iran le donne protestano contro il regime?
Perché è importante…
C’è chi parla già della seconda ondata di «primavere arabe» – come avevamo chiamato le mezze rivoluzioni avvenute in Maghreb tra il 2010 e il 2012, durante le quali i Paesi coinvolti avevano fatto alcuni passi in direzione di una democrazia meno fumosa. Ma l’Iran, a partire dal suo ruolo nel Medio Oriente e nell’intero mondo arabo (non dimentichiamo che è l’unico Stato a maggioranza sciita) è su binari differenti. La popolazione si era fatta portare via i sogni di progresso da una rivoluzione religiosa che aveva abbandonato ben presto le tendenze egualitarie, e l’isolamento conseguente ha fatto il resto. Dopo un paio di ricambi generazionali possiamo guardare addirittura con ottimismo a queste proteste, anche se il nostro sostegno morale non è sufficiente.
25 settembre: viene eletta la prima premier donna in Italia
Chi l’avrebbe mai detto che la prima presidente del consiglio sarebbe stata la leader della formazione più di destra dell’intero arco parlamentare? A ben vedere non è uno scandalo, né una sorpresa. Giorgia Meloni è l’unica vera vincitrice delle elezioni del 25 settembre 2022. Romana, volto oramai storico della destra degli ultimi vent’anni, Meloni guida Fratelli d’Italia, formazione politica che proviene dalla tradizione della destra italiana del Movimento Sociale Italiano e di Alleanza Nazionale e che esattamente dieci anni fa si è staccatra dal Popolo della Libertà (che riuniva Forza Italia e AN) per creare una compagine più identitaria rispetto alla coalizione di centro-destra imposta dal bipolarismo.
Con il suo giuramento nasce il governo più a destra della storia repubblicana con una leadership che non può essere messa in discussione visto che il partito guidato da Meloni ha più che doppiato i consensi dei suoi alleati. Il suo governo è ancora agli inizi, ma sicuramente il fatto che Giorgia Meloni abbia riabilitato l’immagine della destra estrema macchiata da un passato troppo ingombrante e ricopra il ruolo di Presidente del Consiglio, di guida del governo della Repubblica italiana è qualcosa che passerà alla storia.
Leggi anche:
Governo Meloni: solo questione di parole e numeri?
Perché è importante…
Chiamarla rivoluzione è un po’ difficile, sicuramente è stata una mossa molto d’effetto. Il problema di Meloni è che appartiene orgogliosamente a uno schieramento che a una donna affida dei ruoli da decenni (donna, madre, cristiana) senza interessarsi troppo del resto, come la possibilità di decidere per i propri corpi. I suoi stessi elettori d’altronde la considerano un’eccezione proprio grazie ai suoi modi decisi, in tanti vedono in lei la virilità che sognano di far propria. È davvero improbabile che sarà proprio lei a ispirare bambine e ragazze a seguire una vocazione politica, soprattutto se all’interno del suo partito continueranno a sopravvivere ambiguità e silenzi piuttosto fastidiosi di fronte a faccende da cui si dovrebbero invece prendere nette distanze.
Certo è che di rivoluzione potremo parlare quando la presidente del Consiglio dei ministri tollererà quantomeno l’articolo femminile davanti alla sua carica.
22 ottobre: si conclude il Congresso del Partito Comunista Cinese
Per la Cina il 2022 non è stato un anno semplice, sotto diversi punti di vista. Mentre il resto del mondo è lentamente tornato alla normalità provando a convivere con un virus che non fa più la stessa paura, Pechino ha scelto di chiudersi a riccio continuando a mantenere il più duro sistema di restrizioni al mondo per prevenire il contagio. Bastavano pochi casi per chiudere interi quartieri, fabbriche o città. Solo sul finire dell’anno il PCC ha deciso di allentare la politica zero covid, a causa non tanto delle timide proteste di piazza, bensì per ragioni soprattutto legate all’economia. Anche la guerra in Ucraina non sta andando secondo i piani russi e nemmeno secondo quelli cinesi, che avrebbero preferito un’operazione veloce ed ora spingono per una soluzione politica al conflitto. La diplomazia americana ha confermato come l’isola di Taiwan sia al centro del piano di contenimento anti-cinese, e nel mese di agosto un’enorme esercitazione militare, proprio a seguito della visita della speaker della Camera sull’isola, ha contribuito a far salire ulteriormente la tensione. Infine, il Congresso del PCC tenutosi ad ottobre ha rinsaldato ancora di più la presa di Xi sul partito e sul paese, dando al presidente poteri immensi, e con essi la responsabilità di rimettere l’Impero del Centro al cuore del mondo. A che costo, si vedrà.
Leggi anche:
Quale Cina dopo il Congresso del Partito Comunista?
Perché è importante…
La Cina rimane un mistero, è così grande e popolata che mantenere tutto sotto controllo sembra una fantasia orwelliana che a volte si realizza: proprio nelle ultime settimane si sono moltiplicati i video su internet che documentano la gestione del contagio, dai droni che girano per le strade ai malati prelevati da veicoli automatici per essere portati in luoghi di contenimento, alle urla di chi è stato letteralmente sigillato in casa in quanto potenziale untore. Finalmente iniziamo a vedere un’opposizione che ci sembrava assurdo riuscire a domare, e che ci dimostra che anche quel gigante si basa sul consenso e che resisterà con i suoi metodi solo finché i benefici andranno ad una certa quantità di persone. Intanto però continua espansione economica a livello geografico (ormai si sente anche al bar, «La Cina si sta comprando l’Africa») e politico, con aree di influenza e di controllo che nemmeno immaginiamo. Il presidente e il partito dovranno tenere insieme tutto questo per non crollare davanti a un sistema che mangia chiunque non sia sulla cresta dell’onda.
20 novembre: viene firmato il criticato accordo della COP27
Il 20 novembre, con due giorni di ritardo rispetto alla tabella di marcia che avrebbe dovuto vedere la Conferenza per il clima concludersi il 18 novembre, a Sharm el-Sheikh viene firmato un accordo che lascia gli ambientalisti di tutto il mondo delusi. Nessun passo avanti rispetto alle limitazioni nell’uso di combustibili fossili e nel contrasto alle emissioni, solo la semplice ri-affermazioni degli obiettivi stabili dall’accordo di Parigi di contenere il riscaldamento globale a +1.5°C. Un risultato importante è stato però ottenuto nella COP27: la decisione di creare un fondo loss and damage di riparazione per i paesi economicamente sottosviluppati o in via di sviluppo. Questo denaro, ancora da stanziare visto che l’accordo si è trovato solamente sulla generale istituzione del fondo ma non sulle sue modalità di implementazione, andrà ai paesi che subiscono i danni prodotti dai disastri climatici, fortemente in aumento a casa dello sconvolgimento ambientale prodotto dal riscaldamento globale. Una vittoria per questi paesi in sofferenza, guidati dal Pakistan che quest’anno ha visto feroci alluvioni devastare il suo territorio, ma non un passo avanti rispetto a risolvere la radice del problema ambientale. A sottolinearlo è stato anche il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres.
Perché è importante…
La sensazione è che i partecipanti, giunti in Egitto anche a bordo di aerei privati, abbiano puntato a tappare dei buchi e salvarsi la faccia. Qualcuno ha applaudito alle idee, alle proposte innovative come il fondo di riparazione, ma la conferenza di Sharm el-Sheikh ha dimostrato che sulla questione che dovrebbe essere la più impellente nelle agende politiche i Paesi del mondo vanno in direzioni diverse e hanno esigenze troppo variegate per accordarsi. Se da una parte alcuni i Paesi in via di sviluppo vogliono crescere senza limiti ambientali, come abbiamo fatto noi negli scorsi decenni, dall’altra hanno la giusta pretesa di essere compensati. Nel frattempo l’Occidente potrebbe permettersi il lusso dell’ambientalismo, ma sembra aver scelto di non goderselo. In futuro sarà necessario cercare strade differenti, organizzare tavoli tematici e chiamare esperti e membri della società a prendere decisioni che tengano conto della diversità di questo mondo. Ma è chiaro che finché non si troverà perlomeno un obiettivo comune e raggiungibile, la soluzione alla crisi climatica sarà un sogno romantico.
9 dicembre: scoppia il Qatargate al Parlamento Europeo
Ha preso il nome «Qatargate» e qualcuno già ne parla come il più grande scandalo nella storia dell’UE. Si tratta dell’indagine condotta dalla magistratura belga su un caso di presunta corruzione da parte del Qatar – Paese che nel 2022 ha ospitato i campionati mondiali di calcio – all’interno delle istituzioni europee. I fatti hanno visto protagonisti fin dalle prime ore varie personalità italiane, tra cui l’ex eurodeputato Antonio Panzeri e il segretario generale della Confederazione europea dei sindacati, Luca Visentini.
L’inchiesta dell’anno è stata rivelata venerdì 9 dicembre dal quotidiano belga Le Soir e ha fatto rapidamente il giro del mondo gettando un’ombra sulle istituzioni di Bruxelles, sulle ONG, sui sindacati e sui partiti della sinistra europea. Emblematico anche il coinvolgimento di una delle vicepresidenti del Parlamento Europeo, Eva Kaili. Per molti l’inchiesta è destinata a crescere ancora e di misura: ad oggi, a venti giorni dai primi fermi, la lista dei coinvolti sembra crescere giorno dopo giorno. E per diversi commentatori, giornalisti e politologi che stanno ricostruendo la vicenda, la storia ha origini ben più profonde del 2022. Sicuramente ne sentiremo parlare a lungo.
Perché è importante…
Questa brutta storia farà mettere in discussione tante cose, non solo a chi ha creduto a lungo in una sinistra europea unita, che ci guidasse verso l’utopia di un continente in cui tutti fossero felici e assunti a tempo indeterminato. Potenzialmente il Qatargate dimostra che nessuno si salva, che i cattivoni non sono solo nelle destre conservatrici, ma soprattutto che l’Unione è più fragile che mai. Gli stessi che tremano davanti ai sovranisti, gli stessi che si identificano in aree lontane da quelle di chi dice che staremmo meglio da soli, hanno allevato delle serpi in seno. Esisteva l’idea che «almeno loro», i cosiddetti rappresentanti del progressismo, fossero lassù tra Bruxelles e Strasburgo a resistere contro chi ci voleva nazionalisti, chiusi, isolati; ma ci siamo accorti che Panzeri e i suoi amici stavano facendo molto di peggio dietro le quinte, e ora siamo qui a chiederci: ma ne vale davvero la pena? Se anche loro fanno i giochetti della politica allora sarà possibile continuare a camminare insieme verso il sogno? Sarà molto faticoso stavolta riflettere sull’identità dell’UE, perché sembra di sentirne parlare solo quando succedono cose brutte.
Articolo a cura delle redazioni Attualità e Storia di Frammenti Rivista: Agnese Zappalà, Alessandra Ferrara, Andrea Potossi, Daniele Rizzi, Francesca Campanini, Gianluca Grimaldi, Giuseppe Vito Ales, Ilaria Raggi, Michele Corti
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!
Segui Frammenti Rivista anche su Facebook e Instagram, e iscriviti alla nostra newsletter!