Scriveva Roland Barthes, nel 1957, per il Bulletin de la Guilde du Livre di Losanna:
Come romanzo, Notre Dame de Paris assomiglia molto al monumento che ne è il personaggio principale: stessa mistura composita di parti (…). E così come il miglior turista, voglio dire il più saggio e meglio remunerato, è colui che sa accettare oggi un edificio nel suo insieme, parimenti il miglior lettore di Hugo è colui che non si preoccupa troppo di distinguere nel libro il volgare dal commovente, la puerilità dalla scaltrezza, l’arcaismo dalla avanguardia. Come cattedrale o come romanzo bisogna prendere Notre Dame in blocco.
Romanzo storico datato 1831, Notre Dame de Paris è un’opera giovanile che Victor Hugo (1802-1885) comincia a scrivere all’età di soli ventisei anni. Affermatosi come caposcuola del Romanticismo francese, Hugo non appartiene al tipo del poeta romantico compiaciuto della propria eccezionalità e del proprio genio, ma rappresenta l’intellettuale impegnato nella battaglia culturale e civile, propugnatore di idealità democratiche e umanitarie, anche quando finisce in esilio nella Manica dopo il colpo di Stato di Luigi Napoleone. La sua produzione è sterminata e tocca una grande varietà di generi, dalla lirica al teatro al romanzo, ma grande popolarità ottenne con la pubblicazione de I miserabili nel 1862, tipico esempio di romanzo popolare di ambizioni e ispirazione sociale. Romantico invece fino al midollo nel culto degli ideali, delle passioni, dei grandi valori e dell’enfasi scrittoria, tratto che, insieme all’esasperazione eccessiva dei contrasti e dei sentimenti, rende spesso la sua produzione oggi di difficile lettura.
Tutti conosciamo la storia di Notre Dame de Paris, oggetto nel tempo di versioni cinematografiche, teatrali, musical e persino cartoni animati per l’infanzia. In breve, in una Parigi medievale (1482) perlopiù tetra e decadente, si muove la varietà degli strati sociali, dai bassifondi di zingari e emigrati alla piccola e alta nobiltà, il clero e il popolo. Dallo sfondo di questo romanzo-fiume emergono alcuni personaggi principali, che appaiono agli occhi del lettore come archetipi dei grandi miti, delle fiabe e dell’epica: la bella ingenua e selvaggia Esmeralda, lo storpio dal cuore buono Quasimodo, il monaco scellerato Claude Frollo, il soldato fanfarone Phoebus de Chateaupers, il poeta filosofo incapace di agire Pierre Gringoire. Al loro fianco figure secondarie le cui vicende si intersecano tra le vie che conducono alla cattedrale, vera protagonista del romanzo, immobile e resistente ai cambiamenti della storia e della società.
Al di là dell’intreccio, molti sono gli aspetti del romanzo su cui soffermarsi durante la lettura. La resa dello spazio, dettagliata e precisa, come una panoramica a volo d’uccello conduce il lettore per mano tra le vie e i quartieri parigini; la resa del tempo: varie le parentesi nel testo in cui Hugo riflette sui cambiamenti epocali trascorsi dal tempo della vicenda al tempo della scrittura. I personaggi si fanno emblema delle passioni umane, che si impongono con forza e prepotenza tra le pagine: la rabbia, la gelosia, l’amore, la mediocrità morale, la paura vengono scandagliati fino in profondità.
Ma il meglio di sé Hugo lo dà nelle figure tormentate e oscure: Quasimodo, fatto discendere direttamente dalle gargouilles della cattedrale, è un misto di innocenza, affetti e grandi valori morali, come l’obbedienza e la generosità; Claude Frollo è in continua oscillazione tra i poli opposti dell’ascesi mistica e della carnalità. Indimenticabili le pagine commoventi in cui si descrive la tortura della ruota subita di fronte a tutta la città dal campanaro, non del tutto consapevole della propria condizione e dei motivi della cattiveria umana:
È certo che lo spirito si atrofizza in un corpo mancato. Quasimodo sentiva a mala pena agitarsi ciecamente dentro di lui un’anima fatta a sua immagine. (…) Il suo cervello era un ambiente singolare: le idee che lo attraversavano ne uscivano tutte contorte. La riflessione che proveniva da quella rifrazione era necessariamente divergente e deviata. (…) Il mondo esterno gli sembrava molto più lontano che non a noi.
A farla da padrona tuttavia è la massa. Masse popolari anonime, assemblee tumultuose dei grandi del passato, distese di territori urbani o rurali teatro di grandi drammi, che vengono riempiti con lunghi elenchi di nomi propri. Come accade nei capitoli iniziali, per rendere l’idea di una festa pubblica a cui partecipano tutti i vari strati sociali, per rendere il “brulichio” delle persone ammassate, o nella Corte dei Miracoli in cui si somma tutto il degrado umano, da emigrati e zingari a malati e viziosi, tutta la malavita e la malasorte. Hugo non dice mai «c’era una grande folla», ma dà autorità a quella folla, ne presenta i componenti uno ad uno. Non occorre riconoscerli tutti, è il lessico che fa la massa, rappresentata qui nella sua incosciente capacità di passare dalla lode all’accusa. Del resto in questi movimenti di popolazioni, negli scontri tra classi sociali e culture diverse, si prefigurano già le rivoluzioni che l’autore avrebbe poi vissuto di persona.
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Oltre all’avventura, alla teatralità dei colpi di scena e delle immagini, alla passione amorosa e al finale tragico, è la Storia ad avere spazio centrale per Hugo. In questo caso i capitoli più interessanti sono quelli del libro quinto, dove Claude Frollo, erudito e alchimista, nel torrione in cui si chiude, ha davanti a sé un incunabolo del 1474. Johannes Gutenberg ha inventato la stampa da poco più di vent’anni. Il monaco osserva il libro, si affaccia a una finestra e guarda Notre Dame immersa nel cielo stellato. Indica prima il libro e poi la chiesa e dice: «Questo ucciderà quello. Il libro ucciderà l’edificio». Si tratta della rappresentazione di un momento di passaggio, un cambiamento storico e culturale tra i più importanti del tempo umano: il trapasso dall’era della pietra e della architettura a quella della stampa e della scrittura, come fonte di educazione e di sviluppo del pensiero. Terribile il brivido di Frollo e altrettanto lo avverte il lettore di oggi:
Allora chiunque nasceva poeta diventava architetto (…). L’architettura è stata fino al quindicesimo secolo il principale registro dell’umanità, in quell’intervallo non c’è stato pensiero nel mondo minimamente complicato che non si sia fatto edificio. (…) Il fatto è che ogni pensiero ha interesse a perpetuarsi, l’idea che ha animato una generazione vuole lasciare una traccia. Ora, che precaria immortalità è quella di un manoscritto! Che libro assai più solido e resistente è un edificio! Per distruggere la parola scritta bastano una torcia e un turco. Per demolire la parola costruita occorre una rivoluzione sociale, terrestre.
Leggere queste considerazioni alla luce degli avvenimenti attuali di distruzione violenta di patrimoni culturali, tanto in pietra quanto in “parola”, da parte di culture in scontro, induce il lettore a ripensare al romanzo nella sua natura di testo storico sempre attuale in quanto racconto, innanzitutto, di un momento temporale di cambiamento e trasformazione, di conflitto e rigenerazione.
Degna di nota, infine, la capacità dell’autore di intrecciare i fili delle sue marionette per oltre cinquecento pagine, alternando a parti più discorsive scene teatrali e suspense. Accade nella storia parallela, probabilmente sconosciuta ai più, della Vecchia del Buco dei Topi. Una donna in preda alla follia, madre a cui è stata sottratta (forse uccisa) la figlia neonata, che si rinchiude in una cella di preghiera al centro di Parigi e da lì maledice gli zingari, in particolare la Esmeralda, che ritiene colpevoli del suo dolore. Una tragedia nella tragedia che lascia chi legge in sospeso fino ai capitoli finali, dove inaspettatamente tutto si ricongiunge. Del resto è pur sempre un abbraccio, una unione, a sigillare definitivamente tutta la storia: «Quando fecero per staccarlo dallo scheletro che abbracciava, cadde in polvere»
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