8 anni e quattro mesi di carcere. Questa la condanna decisa nel processo di primo grado che si è svolto con rito abbreviato per Alberto Genovese – imprenditore ed ex ragazzo prodigio, ideatore di diverse start-up tra cui facile.it, oggi 45enne – condannato per violenza sessuale nei confronti di due ragazze di 18 e 23 anni. La sentenza è arrivata lo scorso settembre, due anni dopo i fatti avvenuti nel luglio e nell’ottobre del 2020 che ebbero un forte impatto sull’opinione pubblica. A Genovese sono stati riconosciuti i reati di violenza sessuale; i suoi legali avevano chiesto per l’imprenditore la semi-infermità mentale.
Due anni e una sentenza dopo, quello di Alberto Genovese resta uno dei processi spartiacque nella narrazione degli abusi sessuali nel nostro paese, nonché una delle storie più assurdamente divisive degli ultimi anni. La ragione, forse, la difficoltà nel riconoscerlo il vero colpevole, in un cocktail perfetto di misoginia, banalizzazione della violenza e classismo.
Se vieni graziato (anche) dal Sole 24 Ore
Le ragioni del perché la storia degli abusi di Genovese fu particolarmente florida per i media non va neanche spiegata troppo. La tempesta perfetta qui è frutto del nome noto, della storia in sé – fatta di festini, gente straricca, belle donne e abuso di potere da parte di uomini potenti – e soprattutto della possibilità che la vicenda in sé possa essere stata oggetto di dibattito. Una storia ingiustamente divisiva, per usare un’altra espressione, forte della narrazione che “in fondo, bella ragazza, se frequenti certi ambienti il rischio che qualcosa possa andare storto lo devi pure mettere in conto”.
Lo dissero in molti quando il caso venne a galla. Questa versione iniziò a comparire più o meno velatamente e più meno paternalisticamente sulle pagine dei giornali ed instaurò un effetto domino di “ospitate“ nei programmi tv di amici, colleghi, ragazze e ragazzi che erano in qualche modo collegati a Terrazza Sentimento, abitazione di Genovese in cui si consumò lo stupro dell’ottobre del 2020, quello che diede inizio a tutto (qui i fatti). Nel tranello-inganno della vittimizzazione del colpevole ci caddero (consapevolmente e no) in molti, a partire dai giornali che non di rado strizzano l’occhio ad un certo tipo di linguaggio sessista e misogino (qui una perla, per intenderci).
Ma a sorpresa ci caddero anche testate autorevoli come Il Sole 24 Ore che pochi giorni dopo l’arresto partorì un articolo che si apriva così:
«Un vulcano di idee che, per il momento, è stato spento».
Il messaggio tra le righe difficilmente può essere interpretato in altri modi da “il Vulcano/Genovese si ferma momentaneamente a causa di un incidente”. Che quell’incidente fosse un abuso violento durato quasi 24 ore era un dettaglio che poteva passare in secondo piano. C’è da dire che nella redazione del Sole la reazione da parte dei colleghi e delle colleghe a quell’articolo fu durissima. Talmente tanto che il pezzo fu modificato, con tanto di scuse da parte della testata. Il merito di questo dietrofront fu soprattutto del blog Alley Oop, meglio noto come l’altra faccia del Sole 24 Ore, ideato e diretto da Monica D’Ascenzo, che ospita contributi di giornalisti del gruppo Sole 24 Ore e di autori indipendenti e che per primo puntò il dito verso la prima stesura.
Tutta colpa del sistema
Il fatto consiste o no? Chiariamo subito: per la giustizia, sì, Alberto Genovese è responsabile dei capi d’accusa a lui imputati. Secondo la narrazione dei legali di Genovese, poi sposata da altri commentatori (veri e da bar), invece, la gran parte della responsabilità dei fatti era da imputare allo stato di salute di Genovese e all’uso di sostanze allucinogene pesanti che avevano alterato lo stato mentale dei soggetti coinvolti. L’inserimento di questo elemento ebbe una portata fortissima nel dibattito che si andò piano piano ad alimentarsi. In primo luogo, perché si aprì un vaso di Pandora enorme sul tema dell’abuso di droghe in ambienti molto abbienti. Spoiler: le cosiddette droghe dei VIP non sono solo carissime, ma, a quanto pare, facilissime da recuperare nel mercato. Tra queste quella che esplose dopo i fatti di Terrazza Sentimento fu la cocaina rosa, una sostanza totalmente chimica e molto costosa che viene venduta al dettaglio a 400 euro al grammo. Era tra i piatti forte del menù delle feste. Lo stesso Genovese raccontò che:
La droga era nei piatti, sul muretto accanto alla scala, a bordo piscina. Anche in camera mia. (…) Tutti quegli incontri a casa mia erano incontri di tossicodipendenti che vivevano una sessualità priva del suo valore, in modo promiscuo, svalutante.
Eppure, pur avendo confermato la pena riconoscendo le colpe all’imputato in sede legale, la vulgata continua ad assolvere almeno in parte Genovese, “vittima” del suo rapporto con le droghe e “vittima” di un sistema consolidato. Oppure, a spostare parte delle responsabilità sulle ragazze, colpevoli di atteggiamenti provocatori e di essersela andata a cercare (un classico, Genovese o non Genovese). Aurelia, la ragazza abusata nell’ottobre 2020, questa narrazione ha cercato di spezzarla: «non ho niente da vergognarmi, non ho niente da nascondere» ha raccontato a Giletti nel programma La7 Non è L’Arena.
Addio al sogno del giovane favoloso
È facile reagire alla violenza con sdegno e accusa quando il soggetto che la compie è il violento per eccellenza. Viceversa, è difficile per tutti riconoscere la violenza quando questa viene commessa da persone impensabili, o – di più – modelli che avevamo innalzato nel gota della perfezione. Quasi in concomitanza del caso Genovese venne a galla quello di StraBerry, l’azienda agricola pluripremiata e lodata dalla stampa che produceva frutti rossi a chilometro zero nell’area del milanese. Fondata da un ex bocconiano (anche Genovese lo è, ndr), l’azienda è stata accusata sempre nel 2020 di sfruttamento nei confronti di decine di braccianti a seguito di un’inchiesta sul trattamento dei lavoratori impiegati che svelò quella che Il Giorno definì «una storia classista tribale di schiavitù».
Il paragone può sembrare forzato, ma anche in quel caso, seppur molto meno mediatico e ben diverso da quello di Alberto Genovese, a crollare fu la narrazione di un mito: l’enfant prodige, giovane favoloso, che con il suo ingegno aveva creato qualcosa di straordinario. L’ex “Mago delle start-up” e StraBerry, appellativi e creature nate dall’ingegno di ex studenti di scuole prestigiose, fatti a pezzi dagli ultimi, donne “rovinatrici” e lavoratori di colore che chiedevano solo sane condizioni di lavoro. Allucinante!
Due anni dopo cosa resta del caso Genovese?
In primis una condanna: non è scontato visti alcuni precedenti di abusi non considerati tali. E sicuramente una serie di riflessioni importanti: la più attuale, forse, quella legata alla narrazione del merito, questa sì divisiva, che crea una scala di valori in base alle contingenze sociali-economiche e ne dimentica altre, altrettanto se non più importanti. E poi un remind, su quanto ancora sia difficile parlare di abusi e ancora di più denunciarli. Ma all’effetto domino non si scappa: una voce, poi due, poi tante, esattamente come accadde nel caso Genovese che dal carcere apprese di altre donne pronte a denunciare violenze subite.
In apertura un fotogramma dal servizio di La7 “Non è L’Arena” in cui Giletti intervista la vittima di Terrazza Sentimento.
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