Sulla scia di Friedrich Nietzsche e di quel libro ormai dimenticato di Jean Paul Sartre, La Trascendenza dell’Ego, il ’68 ci ha lasciato in eredità una concezione radicalmente diversa dell’esistenza umana: il corpo, gli istinti, la materia non solo sono stati rivalutati, ma addirittura innalzati a metro di giudizio, basti pensare al movimento di liberazione sessuale, alla Nascita della Biopolitica di Michel Foucault che illustra la sostituzione dei vecchi ideali illuministi con un’azione del potere direttamente sul corpo, o al tentativo di istituire una psichiatria materialista, attuato da Gilles Deleuze e Felix Guattari con il loro Anti-Edipo del 1972. Nella versione contemporanea di quel racconto morale greco, in cui il professore rimprovera all’alunno il suo attaccamento alla vita materiale, il professore sprona il giovane a far uso del suo corpo prima che questo cominci la sua lenta e progressiva decadenza. Gilles Deleuze, per l’appunto, arrivato ormai alla fine dei suoi giorni, costretto alla semiparalisi per problemi respiratori, si gettò dal suo appartamento.
Tutto è materia, corpo, finitezza; il tempo corrode la carne, sarcofago, direbbero i greci, non è più fonte di saggezza. Anche coloro che restano convinti dell’esistenza di un ideale più alto, assoluto e atemporale, un ideale verso cui tutta la vita umana tende, come la Bellezza o Dio o la Giustizia, anche questi devono in ogni modo fare i conti con questa nuova concezione dominante.
E allora cosa possiamo fare quando il corpo perde la sua possibilità di agire ed esistere?
In Italia siamo stati prigionieri delle cosiddette priorità. C’è sempre qualcosa che viene prima, se si fa la Legge Elettorale si dice che con quella non si mangia, se si pensa ai matrimoni gay, ecco che ci sono ben altri problemi, l’emergenza migranti? «E allora gli italiani che rovistano nei cassonetti?»: tutte queste osservazioni sono ormai diventate dei leitmotiv. Abbiamo innalzato dei miti: i poveri pensionati distrutti da Elsa Fornero, gli insegnanti deportati, gli «italiani brava gente». In questo clima di aridità per il dialogo e il confronto politico, quello di un certo spessore, si sono persi di vista temi e proposte di leggi indispensabili per la comunità, quelle stesse leggi che differenziano un paese civile da un paese arretrato. In Parlamento, dal settembre del 2013, giace in stato comatoso, una legge di iniziativa popolare sul Fine Vita, depositata insieme a quasi 200.000 firme dall’associazione Luca Coscioni.
Il dibattito si è scaldato di nuovo in questi giorni dopo l’annuncio di Max Fanelli, malato di SLA di Senigallia. Non usa mezzi termini: «se lo Stato non mi permette libertà e dignità, può tenersi le sue medicine». Nella testimonianza inviata agli organi di informazione, le parole che descrivono le condizioni di Max Fanelli assumono un senso generale, che descrive il costante dolore fisico e psicologico a cui sono sottoposti i malati terminali o che soffrono di patologie degenerative e incurabili, è difficile passarci sopra senza un peso sul cuore. Non è una situazione irripetibile quella di Max Fanelli, anzi, è una situazione che potrebbe capitare a ognuno di noi, per questo occorre una legge sul testamento biologico: in questo modo ognuno di noi potrebbe decidere da sé il trattamento del proprio corpo nel caso sopraggiunga un’incapacità mentale o fisica.
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Il Paese non ha certo un’opinione unanime rispetto a questa legge, la critica che più spesso le si rivolge ha un fondamento deista, anche quando si riprende Il Giuramento di Ippocrate. Nel Giuramento, infatti, si legge che mai un medico somministrerà ad un suo paziente un farmaco che lo uccida. Occorre specificare però che, per la cultura greca, il destino dell’uomo non è nelle sue mani: pensate a Edipo, nella tragedia di Sofocle, che non è mai colpevole, ma è solamente colpa di un meccanismo del Fato, o alla sfida tra Achille ed Ettore nell’Iliade, dove il Fato è padrone anche degli dei.
In un paese laico non è possibile svolgere questo tipo di critica: bisogna pensare come se Dio non ci fosse. Certo, come diceva Pier Paolo Pasolini in un articolo sull’aborto, nessuno è favorevole all’eutanasia, non è una scelta semplice, come se si comprassero caramelle, come se si dovesse scegliere dove andare a bere durante il sabato sera: la scelta è sulla nostra vita e una volta tolto di mezzo un fattore trascendente o immanente che decide per noi, la scelta rimane nelle nostre mani. Per non parlare del fatto che, molto spesso, i casi che richiedono l’eutanasia versano in uno stato di accanimento terapeutico, non riuscirebbero a vivere se non attaccati ai respiratori, immobilizzati su un letto di ospedale.
In Svizzera, in Belgio, in Francia e nella grande maggioranza dei paesi europei una legge sul fine vita c’è già. Per questo motivo, associazioni come Luca Coscioni sono riuscite a richiedere l’eutanasia all’estero. Non si può quindi non discutere e approvare una legge che legalizzi la “dolce morte”, visto che in Italia si rischia il carcere per questa pratica, per evitare morti orrende come quella di Mario Monicelli. Non solo, serve una legge anche sul suicidio assistito: pensare che la depressione non sia una malattia è un luogo comune, tanto che si è oramai diffusa l’idea che sia solamente la risultante di sbagli morali.
Per ora non possiamo che attendere e appoggiare Max Fanelli.
di Mattia Marasti
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