All’origine ci sono un bosco, un ragazzino curioso e una macchina fotografica. In principio c’è la voglia di esprimere qualcosa che è scritto tra le foglie di quegli alberi e che allo stesso tempo si fa sentire sotto un sottile strato di pelle, per farli tramutare in una sorta di paesaggio interiore.
JH Engström nasce nel 1969 a Karlstand in Svezia e si autodefinisce «nostalgico di professione». Nega tutte le qualità sfavorevoli attribuite alle nostalgia e la eleva a rappresentante del nostro riconoscimento profondo, delle nostre origini.
«La contea di Värmland è la mia base d’origine. E quando l’amore è vero, c’è stanza per qualsiasi tipo di tonalità. Le mie fotografie sono un omaggio onesto alle mie origini».
A dieci anni Engström e la sua famiglia si trasferiscono a Parigi e il giovane inizia a sperimentare il contrasto enorme che c’è tra vivere in una zona scarsamente popolata e in una delle città più popolate d’Europa.
«Più di tutto, ricordo che ero sconcertato. Parigi è molto più di tutto, tutte le sfumature della vita. La stessa sensazione che provo a Värmald, ma non così chiaramente».
Parigi lo colpisce, come uno schiaffo in piena faccia, con una tale varietà estrema delle culture di ogni quartiere, che lo sorprende. Così la ricerca fotografica, già insita in lui, lo fa rimane inebriato dai colori, dalle litigate e dai baci in mezzo alla strada. Tra la ruvidità mescolata alla tenerezza, la bellezza con una sgraziata bruttezza, trova il suo nuovo equilibrio che sembra traspirare fuori dai primi lavori fotografici. Parigi è definita dallo stesso autore come «città assurda, dove c’è tutto in una volta».
«La foresta, le montagne, l’acqua e l’aria, queste sono le cose che il mio corpo e le mie emozioni riconoscono, poi c’è l’assurda vita di Parigi. Tutta un’altra storia».
La sua passione sfrenata verso le immagini lo porta prima a spalleggiare Mario Testino – famoso fotografo di moda – e successivamente il graffiante Anders Petersen. La scelta della sua formazione è tutt’altro che casuale, sotto l’ala di questi grandi maestri della fotografia Engström si forma e muovendo i suoi primi passi nel campo dei professionisti, inizia a esprimersi senza l’utilizzo di troppe parole. Così JH Engström racconta il suo rapporto con i due fotografi, così diversi: «da loro ho appreso moltissimo, l’approccio di Anders era basato su un livello più esistenziale e personale mentre Mario doveva prendere il suo lavoro estremamente sul serio, perché i suoi clienti stavano pagandolo molti soldi. Mi piace quando le persone prendono ciò che fanno così seriamente, perché avere a che fare con la responsabilità equivale ad avere anche amor proprio».
Anders Petersen aggiunge solo ciò che manca all’artista, lo completa donandogli un po’ della sua saggezza fotografica appresa per strada, o semplicemente facendogli capire cosa davvero stava cercando.
«Se volete scoprire chi siete veramente dovete cercare situazioni aliene a tutto ciò che finora è stato vissuto come “normale”. Dovete andare fino in fondo, e vi accorgerete che nel degrado c’è una mancanza di pressione che può essere liberatoria».
(Anders Petersen)
Engström intanto cresce, fino a prendere la sua nostalgia ed eleggerla come elemento principe dei suoi lavori. Un ritorno che diventa luce scritta:
«La nostalgia è quella cosa che permette alle persone di capire dove si trovino, nel mondo che li circonda».
Nostalgia è arte; entrambe si susseguono e incarnano una fotografia che incorpora sia il documento sia l’atto artistico. Per rappresentare le sue opere l’autore costruisce storie fotografiche dando grande importanza alla successione e alla disposizione delle immagini.
Creando quindi un suo specifico linguaggio visuale l’autore si porta in alto alle classifiche internazionali fino a vincere numerosi premi e riconoscimenti come il Leica Oscar Barnack Award per la serie Tout va Bien.
Il suo modo di esprimersi si muove tra forme di persone e visuali di luoghi inconsueti, spiegando più volte che il suo mondo è, in realtà, racchiuso dentro a una bolla difficilmente raggiungibile.
«Tutto quello che avevo visto e tutto ciò che era nuovo, li ho raccolti in una bolla. Non c’era nessuno per me con cui condividere tutto questo».
Con JH Engström siamo di fronte alla dimostrazione pratica del potere fotografico che rivela tutta la personalità di chi fotografa, non la sua bravura o la sua tecnica, solo la sua persona pura e semplice. Guardare le sue fotografie così diventa entrare nei suoi ricordi, nella sue giornate, nei luoghi difformi nella sua formazione francese e poi svedese, nel suo bilinguismo acquisito e ricercato.
Nel 2010 incontra Margot Wallard, anch’essa fotografa nata in Francia e con una forte personalità fotografica, ancora una volta è la passione cieca e irrefrenabile che li fa viaggiare tra emozioni Urali e rurali, tra Parigi e Värmland. Conoscendo la debolezza e le forza di questo stato d’animo, decidono di creare Foreign Affair, il loro primo libro fotografico.
Da questa prima esperienza nasceranno tra i due collaborazioni di ogni genere con 7 Days, Athens, November 2011 edito nel 2012 e Karaoke Sunne nel 2013 fino ad aprire e gestire un workshop annuale insieme, l’Atelier Smedsby, ideato appositamente per giovani fotografi.
L’oscillazione tra il presente e le memorie del fotografo escono predominanti, diventano segno distintivo e immaginazione. Da tutte queste immagini non troviamo confini rigidi, tra emozioni e imparzialità. Possiamo spaziare: è come una citazione d’autore, scritta senza senso e senza destinatario, semplicemente per essere scritta.
«È un lavoro artistico. Per quanto mi riguarda, per lungo tempo è stato qualcosa di divertente da fare durante il fine settimana, non una vera professione. Le immagini sono solo pezzi di carta, dopo tutto».