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Dove sono? Filosofia di un pianeta che cambia

Bruno Latour elabora e dilata, in un'opera frutto di riflessioni post Covid, il concetto di universo, di habitat e di agentività.

6 minuti di lettura

«Dove sono?». Secondo Bruno Latour, il lockdown della pandemia Covid-19 ha sollevato questa domanda.

Tentando una risposta, nell’opera Dove sono? Lezioni di filosofia per un pianeta che cambia, Latour dilata la distinzione tra “fuori” e “dentro“. Situati all’interno sono i viventi che accettano di vivere confinati in bolle, nicchie, entro il limes di Terra; all’esterno invece è localizzato ciò su cui non esercitiamo un intervento immediato, di cui non viviamo: lo spazio estraneo del quale sappiamo pur calcolare al millesimo i movimenti, ma che non contribuiamo affatto a realizzare: Universo

Terra è il “nome proprio” dell’ambiente aperto in cui la pluralità degli agenti viventi costruisce, pezzo per pezzo, il proprio habitat. Reciproca interdipendenza di agentività che rende Terra il conglomerato di habitat costruito dalla costante interazione agente della collettività dei viventi, tendente a finalità che si realizzano in modo «incalcolabile», spesso risultati di «errori di valutazione». 

Latour pensa genealogicamente il procedere della Vita del pianeta. Gaia, anzitutto, rappresenta la disattivazione del paradigma dell’antichissima concezione del cosmo regolare ordinato razionalmente da leggi immutabili. 

Organismo e Olobionte

Il concetto di olobionte, perciò, rispetto a quello di organismo, è più adeguato allo stato di fatto del vivente, poiché congiunge sia la co-agentività metamorfica che è Gaia, sia il network in cui e per cui ciascun actor sprigiona la propria peculiare funzione agentiva.

Mentre organismo evidenzia l’insieme delle componenti strutturali di un sistema vitale chiuso autofunzionante individuale, olobionte sottolinea un sistema vitale aperto in cui una pluralità di ‘viventi’ concorrono alla sopravvivenza. 

Latour richiama anche la distinzione tra viventi autotrofi ed eterotrofi, estendendo l’eterotrofia a tutti i viventi, affermando che nessuno è capace di non lasciare resti, scarti, o prodotti della sua esistenza. Ciascun vivente subisce ripercussioni su di sé da parte di altro e agisce ripercussioni su altro: o è una agentività nel network Gaia, oppure non esiste. Tertium non datur

Questo aspetto era stato colto da Friedrich Nietzsche, che lo ribadiva nella cosmologia dell’Eterno Ritorno, quando scriveva: «il mondo sussiste […] vive di sé stesso: si nutre dei suoi escrementi». Compreso ciò, Latour dice: «non bisogna più pensare in termini di identità, ma di sovrapposizione e sconfinamento per entrare un po’ nell’etologia dei viventi.» Per questo Terra è «il termine che comprende gli agenti, ma anche l’effetto delle loro azioni, tutte le tracce lasciate dal loro passaggio».

L’idea della interrelazione per cui qualcosa di inerte non esiste risale alla coppia platonica agire-patire.

Actor-Network

Ogni agente è dunque actor-network. 

La tesi è risaputa: non c’è vita per chi tenta di auto-segregarsi dal resto. Chi tenta di percorrere questa via, il “soggetto moderno”, si rende impossibile vivere, si auto-annichilisce fino alla sua scomparsa, affievolendo progressivamente la propria agentività nel network.

 Il soggetto moderno, quindi, è un olobionte che o ignora di esserlo, oppure rifiuta questa realtà immodificabile del proprio esserci: in entrambi i casi si comporta come un individuo teso a svincolarsi dal resto, impegnato a garantirsi quanta più autonomia e indipendenza possibile.

L’eccentricità della soggettività pura, che lotta per sottrarsi all’oppressione, ha addomesticato sé stessa orientando il proprio metabolismo all’eccesso di compensazione. Ciò ha prodotto il geloso individualismo della soggettività moderna egoista, che aggira il legame intrinseco con gli altri viventi ripiegando in sé stessa, avendo di mira l’antropizzazione del pianeta.

Questa tensione-guida dell’ethos umano moderno, osserva Latour, oltre che un gesto egoistico e tirannico, è altresì una pura illusione. Il suo protrarsi nelle generazioni ha condotto homo sapiens allo smarrimento di sé, alla progressiva perdita di coscienza della realtà di Gaia.

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Latour ribadisce un fatto che può sembrare banale: il nostro legame con altri viventi è vitalmente costitutivo per la nostra specie: dipendiamo al livello geologico e biologico da altri viventi nel definitivo modo per cui non è neppure del tutto corretto distinguere tra ‘noi’ e ‘loro’. L’insieme delle agentività rende ciascun individuo un attore-rete, cioè sovrapposizione non-individuale

Coscienza ed egoismo

La coscienza personale non tollera a lungo la determinazione strutturalista per cui la sua autosussistenza operativa è vitalmente dipendente da altro e vitalmente responsabile di altro. Latour cerca di promuovere una koiné post-metafisica e ultra-globalista.

Latour suggerisce di «cambiare atteggiamento». L’internazionalismo ecologista, cioè l’unificazione dell’umano all’insegna della «visione comune» della biosfera composta da olobionti, e non da individui monadici, è la nuova prospettiva del futuro comunitario di Gaia.

La salvezza non potrebbe scaturire proprio dagli enormi progressi scientifico-tecnologici che Homo sapiens ha prodotto? Latour risponde positivamente, con la clausola che l’economia (dello speculativo mercato capitalizzato che pasce il sistema finanziario del debito-credito internazionale) ritorni “superficiale”, non più il mezzo-fine di ogni progetto umano. 

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Il superamento dell’individualismo non sembra però mai essere completo. In che misura la cognizione di essere un olobionte eterotrofo scosterebbe un autocosciente soggetto sociale responsabile delle proprie azioni dall’Antropocene? Solo al costo della dispersione, della rinuncia assoluta alla padronanza di sé, sarebbe possibile eliminare totalmente l’autoreferenzialità dell’individuo egoista, l’illusione della persona indipendente e autonoma.

Latour sembra muoversi in tale direzione, parlando di «diplomazia dell’olobionte». Una diplomazia dei viventi interdipendenti in e con Gaia, sviluppata nel rispetto del “nomos della Terra”, che nell’ottica di Latour è la sovrapposizione generativa irregolare delle eterogenee agentività viventi. Non Cosmo, ma Gaia. 

D’altra parte, se simile superamento fosse contemplabile bisognerebbe giustificare il bisogno della presa di coscienza personale della reale situazione di homo sapiens, se questa, pur avvenendo nelle coscienze personali, consiste precisamente nell’abbandono della visione antropocentrica ed egoistica, che coincide proprio con l’attuale autocoscienza personale.

E però, quando si parla di agentività per l’essere umano si pensa immediatamente alla intenzionalità, e dunque alla coscienza. Ancora James Lovelock, nel suo libro Novacene. The coming age of hyperinelligence, definisce l’umano quel vivente che il pianeta ha prodotto per avere coscienza di sé stesso. 

La prospettiva abbracciata da Latour è opposta: non è il pianeta a creare i viventi come sui prodotti. Ogni vivente vive per qualche finalità inestricabile da Terra, dunque pianeta e viventi non sono due termini separabili in una distinzione reale, bensì in fondo coincidono. 

Si tratta allora di un cambio di paradigma, che ha come centro di sostituzione la coscienza della soggettività moderna. Il superamento del dualismo soggetto-oggetto cartesiano, anche nelle sue implicazioni ecologiste, non sembra andare oltre l’autocoscienza umana, anche se intesa nel più anti-egoistico significato della comunità olistica fondata sulla interdipendenza agency-network dei viventi di Terra.

Divenire-non-umano

La nostra vita senziente e vigile sul pianeta, il nostro esserci autocosciente, sorge nel contesto in cui tutti i viventi assieme concorrono metabolici alla costante generazione e preservazione delle molteplici bolle di Terra. L’ambiziosissima meta viene, perciò, chiaramente distinta da Latour nella formulazione: «divenire-non-umano degli umani». 

Forse il più improbabile tra i propositi immaginabili. Occorre interrogarsi sulla sua fattibilità. 

Può essere una nostra responsabilità categorica quella di agire in modo da garantire la sopravvivenza della vita sulla Terra? Forse, dobbiamo modificare radicalmente l’auto percezione di noi stessi in quanto umani per tornare a scorgere la nostra agentività su Gaia? 

Dovremmo imparare a comportarci da olobionti sovrapposti ad altri olobionti per sopravvivere bene nell’habitat, continuandolo a ritenere soprattuto nostro? Non è questo un impulso egoistico? 

La grande questione allora diventa: può l’essere umano impiegare la propria coscienza per auto trasformarsi in non-umano? 

Artificialità

La lotta per la coscienza umana comincia dunque con l’assunzione della consapevolezza che l’umano non è altro che una delle agentività contribuente a rendere sia Gaia che sé stesso vivente.

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La maniera di emanciparsi in questo scenario, il «Come uscirne?» che emerge dal «Dove siamo?» del titolo del volume di Latour è: «Oltrepassare il limite del concetto di limite». Latour intende il limite nel senso del latino limes, frontiera. Non ritenere che limite sia sinonimo di sclerotizzazione.

Ma se il limite del concetto di limite fosse proprio la coscienza umana? 

Eppure, la nostra capacità di renderci autonomi, la tecnica, l’inventiva pratica, le maniere in cui la nostra coscienza ci guida nella nostra artificiosità, è esattamente ciò che abbiamo in comune con Gaia.

Disperdersi in tutte le direzioni

Il problema ecologico non scaturisce dalle capacità tecniche sviluppate e affinate dalla specie umana, bensì dall’indifferenza egoistica con cui l’essere umano abitualmente impiega i propri artifici. 

Il consiglio è: sconfinare espandendosi, sovrapponendosi, esplorando ogni co-agentività possibile per, potremmo dire, ri-habitizzare nuovi habitat su e con Gaia.

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Dalla descrizione degli olobionti, bisogna allora immaginare Terra come uno Stato con una costituzione democratica costruito dalla partecipazione collettiva, popolato da un regime olo-comunitario, che imprevedibilmente crea ambienti abitabili nel modo incalcolabile degli errori con cui si configurarsi la creazione evenemenziale di nuovi habitat e di nuove etnogenesi nell’aperto network Gaia

Ecco chiudersi il cerchio delle riflessioni di Latour.

La coscienza dell’agente umano dovrebbe orientarsi con quella «finalità senza scopo», che sola può farci riconquistare la libertà di rompere vincoli fittizi e circoli viziosi. Seguire, insomma, il consiglio che Bruno Latour lascia in eredità: metaforfizzarci, con e su Gaia, disperdendoci in ogni direzione. 

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Lorenzo Pampanini

Classe 1994. Laureato in Scienze Filosofiche all'Università La Sapienza di Roma.

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