di Aurelio Lentini
Esasperati sembravano i passi, avvolti nel tenue candore di una giornata nata stinta, e da quel senso di angoscia costante che accompagnava l’andarle a parlare di nuovo, ancora, per l’ennesima volta.
Questa volta, però, lui era più risoluto, forte di una pace distesa, rassegnata ma fiera. Ovunque, dappertutto, non era che un compromesso schifoso, un’umiliata tensione tra niente e tutto, a eterno discapito di ciò che valesse la pena.
L’aspettava seduta sul terrazzo di casa. E quasi non alzò gli occhi a vederlo, continuava nei suoi pensieri, anche lei, distante come sempre.
– Conosci William Faulkner? – gli chiese senza un saluto.
– No – rispose lui – chi è?
Senti, l’ultima frase di Palme Selvagge è molto bella: tra il dolore e il nulla, io scelgo il dolore. E tu – domandò quasi ingenua – cosa sceglieresti?[1]
La sua bocca si inarcò un poco, e tinse le guance di un lieve rossore. “Già cominci”, pensava, ma non lo disse, serbava un’altra risposta.
– Sei una schifosa[2] – pronunciò con un filo di voce, opponendosi al suo tradimento – come se fossi ancora il bambino che ti amava incosciente, e non avessi capito, invece, che tutto questo compromesso, questa contraddittorietà, questo vivere atroce, sono figli di un amore per te anche a scapito di me stesso.
Si alzarono finalmente, gli occhi di Quella, gonfi e atterriti.
– Ora non parli, davvero!? – esclamò lui – Certo! perché sai già la risposta, solo ignoravi che anche io, un giorno, l’avrei accolta serena. Sì! Perché tu sai che non posso aver scelta: che non si danno, tra noi, quel dolore o quel niente. Perché non possiamo che essere uniti, ma allo stesso tempo, non essendo uniti, non possiamo nemmeno essere divisi. Allora io non ho scelta, né il tutto né il niente, ma solo un dolore che non ho scelto, e che non si quieta, perché sarai sempre, ma non si dimentica, perché tu non sarai mai.
Credeva sincero che quel dolore gli sarebbe stato indifferente, e che accettandolo si sarebbe potuto incamminare per la via dove le azioni non sono sorrette da alcuna fede o sincerità, si valgono tutte tra di loro e si accumulano in belle stratificazioni sullo spirito dimenticato fino a soffocarlo[3]. Subiva la sfida, con quieto rammarico, senza nemmeno farne una colpa, a Quella, di non amarlo, di non poter essere davvero, per lui, la ragione profonda che pure era sicuro di aver intravisto; quella felicità confusa, e non ancora, ma certa.
– Ma un uomo senza speranza – disse lei strappandolo alle lacrime – è come se fosse già morto, anche se apparentemente vive.[4]
Eppure non era umano anche lui? Che pur protestando contro questo destino rinunciava a mutarlo e ne accettava il dolore, che pur implorandolo ne guardava soltanto l’eterno tramonto, e si abbandonava al sospiro ferito di non vederne più aurora?[5]
Parlarle l’aveva rotto, e le sue lacrime adesso, la commuovevano. Quel dolore, al quale fino ad allora poteva dire di essere estranea la raggiunse improvviso; sentiva adesso, la colpa innocente, di non aver protratto in avanti la mano, più vicina a lui che tante volte si era allungato per afferrarla, per raggiungerla sulla vetta del monte e brillare insieme nell’alba. Vedeva improvvisa quella tensione che lacera, divisa tra l’accettazione del presente come un dato storico necessario e non modificabile, e quindi la sua atroce accettazione; oppure il rifiuto in quanto lo si considera una mera accidentalità che, in quanto tale, non è vera storia. Vedeva il suo dissidio, di quella povero amico, il suo non-essere rispetto al vero essere, quello che desiderava tanto e credeva di poter realizzare.[6]
– Sii uomo – le disse improvvisa e bramosa di vederlo felice – ascolta la tua natura, non piegarti alla storia. Sii ciò che sei nato per essere, tu sei già un uomo, eppure devi ancora esserlo. Lo sei potenzialmente, lo devi realizzare in libertà e creatività. Sei un essere di specie, un coessere; sei un’armonia, sei dotato di ragione, di volontà e di amore: devi essere tutto questo, costruire il tuo essere-coessere, la tua persona-società…
– Tu! – esplose lui – proprio tu vieni ora a dirmi di essere un uomo! A me, che a te ho sacrificato i miei giorni e i pensieri, costante e caparbio, fino alla fine del dolore, tu ora vieni a dirmi di essere un uomo; di portare avanti indomito una fessa utopia. Per che cosa? E con che coraggio, tu che non conosci l’abisso, condanni non già la rinuncia, che nemmeno il niente ti ho detto che è mio, bensì il mio dolore accettato, l’inerzia, la quieta rassegnazione, tra gli spasimi che mi hanno strappato, a un vivere calmo, nonostante il dolore?
Proprio lei, alla cui sorda freddezza, insensibile ai suoi richiami, era riuscito ad abituarsi, proprio la vita che gli era sempre sfuggita, adesso lo inchiodava all’aria con occhi di ghiaccio, dolcissima e implacabile, pronta ad alleviarne l’angoscia.
– Perché ormai sai, che mentre sei uomo potresti essere anche un uomo-non-uomo, un uomo-bestia; perché lo sei stato, e lo sei ancora[7].
– Io so – disse offeso l’uomo alla vita – che sei proprio schifosa.
– Non dire le bugie.
– E chi ti dice che io stia mentendo?
Glielo avevano detto la sua commozione, il groppo salito alla gola, gli occhi brillanti di un pianto di gioia, e i battiti del cuore martellanti come un tamburo.
– Ricordi – lo carezzò tenera e malinconica – quando mossi da un comune impulso ci trovammo improvvisamente tutti in piedi, unendo le nostre voci all’unisono, nel lento crescendo dell’Internazionale. E un vecchio soldato, brizzolato, singhiozzava come un fanciullo. Aleksandra Kollontaj tratteneva le lacrime. Il canto si spandeva possente per la sala, scuotendo le finestre e le porte e perdendosi nella calma del cielo. «La guerrà è finita! La guerra è finita!» gridò accanto a me un giovane operaio, il viso raggiante. Poi quando il canto finì, mentre restavamo in piedi, in un silenzio imbarazzante, qualcuno gridò: «Compagni! Ricordatevi di quelli che sono morti per la libertà!». Allora cominciammo a cantare “Per sempre, fratelli, avete scelto una nobile strada. Sulla vostra tomba giuriamo di combattere, di lavorare per la libertà e la felicità del popolo”[8].
Questa è la nostra guerra, tu lotti per il nostro mondo, quel mondo che sai non essere ancora, ma già verità[9].
Al colmo della commozione, straripato oggi argine, l’uomo si slanciò verso di lei, e gli sembrò per un attimo di riuscire a tenerla per mano. In quell’attimo, da uomo onesto qual era, fu in grado di dire:
– Perché l’uomo onesto non si sottomette alla storia[10].
– Visto… – gli sorrise lei – è una bella frase.
– Non è mia – rispose lui – è di Silone.
– Importa poco di chi sia, se lo credi.
– Lo credo.
– Allora sai già che tra di noi non è tutto né niente, ma nemmeno un dolore. Tra noi sarà sempre, un magnifico slancio.
Kira[11]
[1] Dialogo estrapolato dal film di Jean-Luc Godard, Fino all’ultimo respiro.
[2] Sei proprio schifosa, è quanto dice morente Michel Portail rivolto a Patricia alla fine de Fino all’ultimo respiro. Ma lo dice rivolto alla donna che amava o alla vita? Scopritelo nel bellissimo articolo di Ginevra Amadio
[3] Alberto Moravia, Gli indifferenti, Bompiani, 1949, pag. 220
[4] Frase molto efficace di Ernst Bloch.
[5] Estrapolazione da Ernst Bloch, Il principio speranza, Garzanti, 2005, pag. 1389.
[6] G. Schiavone, Sulla dinamica storica del progetto utopico, in Arrigo Colombo, Utopia e distopia, Dedalo, 1993, pag. 215
[7] Questo corsivo e il precedente sono estratti da Arrigo Colombo, L’utopia, il suo senso, la sua genesi come progetto storico, in Arrigo Colombo, op. cit., pag.159
[8] Marcia funebre russa.
[9] In John Reed, Dieci giorni che sconvolsero il mondo, Einaudi, 1971. Il corsivo è riferito alle pagine 129 e 130. La frase seguente è rielaborata da alcune frasi a pagina 213.
[10] Frase leggermente riadattata dal finale de La scuola dei dittatori di Ignazio Silone, che in originale è: non credo che l’uomo onesto debba necessariamente sottomettersi alla storia.
[11] Amalia-Lidya Lalli, nome di battaglia Kira, non ha certo visto i film di Godard, forse ha letto Moravia e magari John Reed, di certo non Bloch. Uccisa dai fascisti il 22 aprile 1945, a 23 anni, la sua speranza le è costata il dolore più grande, ma il suo dolore fonda la nostra speranza, e dai suoi occhi sognanti, continuiamo a guardare la vita.