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Quale Cina dopo il congresso del Partito comunista?

Nel XX Congresso del Partito comunista cinese il presidente Xi Jinping ha rivoluzionato il protocollo. Ma anche la forma è sostanza. Cosa cambia ora per la Cina?

6 minuti di lettura

Il 22 ottobre si è concluso a Pechino il XX Congresso del Partito comunista cinese. Si tratta dell’evento in assoluto più importante della politica cinese, durante il quale oltre duemila delegati affluiscono nella capitale da tutto il paese, in rappresentanza dei circa 96 milioni di iscritti al partito. Si tratta di numeri eccezionali, che rendono solo in parte la solennità e l’importanza cruciale che il Congresso ha sempre avuto da quando il primo congresso, tenutosi nel 1921, pose le basi a quello che sarebbe diventato il partito-stato che conosciamo oggi. Allora i delegati erano solo 12 in rappresentanza di meno di sessanta iscritti al partito, tra i quali però c’era già un giovane Mao Zedong.

I congressi sono sempre stati un momento di forte tensione interna e di mediazione, di lotte intestine e di rese dei conti, momenti in cui tessere relazioni e spezzare cordoni ombelicali divenuti inutili o dannosi. I piani quinquennali, che dettano le linee guida di sviluppo economico sono sempre stati presentati ed approvati durante il Congresso del Partito comunista cinese, il quale si riunisce innanzitutto per nominare quello che è l’organo supremo alla guida dello stato, ovvero il Comitato permanente del PCC, un’assemblea ristretta di sette potentissimi funzionari che di fatto stabiliscono la linea politica del partito e dello stato sotto la guida del segretario generale, che è sempre stato una sorta di primus inter pares, dovendo confrontarsi e mediare con una struttura ipertrofica e diversificata nella quale trovavano spazio idee ed orientamenti talvolta diversi tra loro.

Questa logica ha sempre portato a comitati permanenti nei quali trovavano spazio, accanto ai rappresentanti della corrente attualmente dominante, anche esponenti della cosiddetta opposizione interna, che garantivano un equilibrio. Vi erano poi alcune regole non scritte, come quella che fissava a 69 anni il limite d’età per fare parte del Politburo, oppure il tacito rispetto di una stretta gerarchia che regolava le promozioni.

I nuovi membri del comitato centrale

Molte di queste cose sono cambiate. Xi Jinping ha, a suo modo, rivoluzionato un protocollo interno rispettato da decenni. I mesi precedenti al XX Congresso del Partito comunista cinese sono stati caratterizzati da epurazioni, lotte intestine e divisioni che ci hanno restituito un partito diverso, sempre meno espressione delle correnti interne e sempre più schiacciato sulla figura di Xi. Il presidente si è di fatto circondato di uomini che spesso conosce da decenni, che devono la loro carriera politica a lui e che soprattutto fanno parte della sua stessa fazione interna al partito, che fa capo alla regione dello Zhejiang, una provincia che si trova poco a sud di Shanghai. Dei sei membri, oltre al presidente, che formano il comitato permanente del Politburo, solo due sono sopravvissuti al cambio di passo imposto dal segretario, con quattro nuovi ingressi che per storia, legami e affiliazione confermano la posizione pressoché ormai egemonica del leader all’interno del partito. Il vicepremier Li Kequiang, legato all’ex presidente Hu Jintao e rivale di Xi nel 2012 per la carica di segretario non è stato riconfermato, così come Han Zheng, storicamente associato ad un altro ex presidente Jiang Zemin, più altri due funzionari, questa volta legati a Xi ma sostituiti da uomini che possono vantare un legame personale con il leader. Tra i promossi c’è invece Li Qiang, capo del partito a Shanghai dove non si è esattamente distinto per una gestione efficace della politica zero COVID promossa dal partito, ma nonostante ciò probabilmente verrà nominato vicepremier. Zhao Leji, capo della Commissione disciplinare per l’ispezione disciplinare, sostanzialmente l’organo anticorruzione del partito, è stato tra le due sole riconferme all’interno del comitato permanente. Un segnale chiaro.

I mesi precedenti al Congresso sono stati caratterizzati infatti da un rafforzamento delle operazioni anticorruzione interne al partito, che ai piani alti sono state usate dal segretario per epurare l’amministrazione. Non è un caso che, solo a settembre, ben cinque funzionari di alto livello siano stati arrestati ed immediatamente processati. Due di loro sono stati condannati a morte, la cui esecuzione è stata successivamente sospesa. Tutti erano legati a Sun Lijun che, prima di essere arrestato nel 2020, era viceministro per la Pubblica sicurezza l’organo responsabile delle attività di polizia e di intelligence domestica. Se si ricostruisce la catena degli eventi, si può facilmente risalire fino a Bo Xilai, primo vero oppositore interno di Xi e capo del partito nel Chongqing, condannato all’ergastolo nel 2013, un anno dopo l’ascesa di Xi al potere.

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Il tema della corruzione, come sottolineato, ha permesso al presidente di eliminare sostanzialmente l’opposizione interna, ma le migliaia di arresti degli ultimi anni segnalano anche un problema più profondo e radicato nella classe dirigente cinese.

Un partito con quasi 100 milioni iscritti, strutturato ed articolato come nessun’altra organizzazione al mondo, non può permettersi di lasciare che un cancro del genere si faccia strada all’interno dell’amministrazione, perché eliminarlo sarebbe semplicemente impossibile, ed in paese in cui lo stato ed il partito sono sostanzialmente due facce della stessa medaglia, le parti in causa comprendono la società cinese nella sua interezza.

Il conglomerato industriale formato dalle grandi aziende statali è fortemente vulnerabile ad un problema che potrebbe dimostrarsi a lungo termine decisivo per l’ascesa cinese. Il modello meritocratico sul quale si fonda il paese, brillantemente analizzato da Daniel A. Bell, sociologo canadese e professore della Shandong University nel saggio Il modello Cina potrebbe essere messo in crisi dalla strada che Xi ha deciso di prendere.

Meno di Mao, più di Deng

L’accentramento del potere promosso dal segretario è qualcosa che nel paese non si vedeva di fatto dai tempi di Mao e in parte di Deng.

La pluralità, la coralità e la condivisione delle decisioni con fazioni non necessariamente vicine a quelle del leader hanno sempre garantito al paese, seppur nel contesto autoritario, di non procedere in direzioni azzardate sulla base dell’iniziativa personale. Questa impostazione collegiale è di fatto parte del passato, in un momento in cui il paese si trova a dover far fronte a una serie di temi molto importanti, a cominciare dalla crescita economica che per la prima volta non rispetterà i target fissati dal partito (e sui dati cinesi, anche in passato quando erano senza dubbio migliori, diversi economisti hanno sempre sollevato dubbi riguardo la trasparenza), passando per la crisi innescata dalla guerra in Ucraina e la difficile gestione dell’amicizia senza limiti con la Russia, l’accerchiamento del Pacifico da parte delle varie coalizioni a guida americana e, non da ultima, la questione relativa alla sovranità sull’isola di Taiwan.

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La gestione di tutte queste sfide contemporaneamente deve aver indotto il presidente a pensare che una leadership forte e che non deve rendere conto a nessuna opposizione interna abbia maggiori possibilità di destreggiarsi con successo, ma si tratta sempre di una lama a doppio taglio. La responsabilità, in caso di fallimento, diventa personale, e alcune battaglie in particolare potrebbero non essere vinte così agilmente e senza contraccolpi interni.

Hu Jintao fa definitivamente parte del passato

Un ultimo aspetto interessante, ed a suo modo sorprendente che ha caratterizzato il Congresso è stata l’uscita di scena dell’ex presidente Hu Jintao. Non è chiaro quali siano i reali motivi dietro l’allontanamento dell’anziano funzionario, ma le scene che vedono due commessi, chiamati da Xi, sollevare quasi di peso l’ex segretario generale e portarlo via dal posto privilegiato che occupava proprio al fianco di Xi hanno fatto il giro del mondo, anche se la diffusione su Weibo e sulla televisione di stato cinese è stata bloccata in pochi minuti dalla censura. Il partito ha giustificato l’umiliazione sostenendo che Hu soffriva in quel momento di problemi di salute, ma la dinamica dei fatti racconta altro. Si vede chiaramente che l’ex leader non era a suo agio, in uno stato quasi confusionale mentre cerca di leggere un plico di documenti che più volte gli viene sottratto, fino al momento dell’intervento dei commessi. Nell’allontanarsi poi, Hu si rivolge velocemente a Xi, il quale a fatica si volta verso di lui, e accarezza la spalla la Li Kequiang, l’ormai ex premier che un tempo faceva parte della corrente da lui guidata. Non è chiaro se si tratti o meno di un’epurazione in diretta internazionale. L’ex segretario non deteneva ormai alcuna carica, e la sua influenza era solo marginale. Potrebbe essersi trattato di un segnale che Xi ha voluto dare al Congresso del Partito comunista cinese, come a sottolineare che la svolta si era ormai interamente compiuta, ma anche in questo caso il rispetto verso l’anzianità e il protocollo suggeriscono che potrebbe trattarsi di un’ipotesi azzardata.

La verità è che difficilmente si saprà mai che cosa ci fosse dietro la scelta di allontanare Hu in un modo così plateale, per capire però se si trattasse di una decisione politica potrebbe essere utile guardare al figlio dell’ex segretario, Hu Haifeng, segretario locale del partito nella città di Lishui. Se nei prossimi mesi dovesse passare dei guai, allora è possibile che il teatrino che abbiamo visto fosse gentilmente offerto dal presidente Xi in persona.

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Michele Corti

Nato a Lecco nel 1996, studente di Scienze Politiche. Amo la montagna in ogni sua veste, il vento in faccia in bicicletta, la musica e provo a destreggiarmi nella politica internazionale, cosa fortunatamente più semplice rispetto a quella italiana."

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