Il compito di chi voglia ricercare la purezza di un testo, risalendo controcorrente il fiume limaccioso delle interpretazioni stratificate, di chi voglia non aggiungere altri detriti, ma semmai epurare, di chi concepisca l’unico aggiungere giustificato come un sottrarre, dovrebbe essere, nel caso di specie, quello di – come è stato sostenuto – “ricondurre Antigone a se stessa” o, ci spingeremmo a dire, di liberare Antigone dal diritto (rectius da una certa idea di diritto o, se si vuole, dalla “retorica dei diritti umani”). E’ un’operazione emergenziale, una sorta di cura estrema, in un impianto già dotato di interpretazioni unilaterali molteplici ed univoche che hanno finito per irrigidire il testo e la sua polivocità in un senza-tempo senza-senso.
Si tratta di un tentativo arduo. Anzitutto perché l’equivoco da scardinare non è, senza meno, recente. E men che mai il “mito” dell’Antigone partigiana umanitaria è raccontato da stolti. Al contrario, il primo fautore di una siffatta lettura della tragedia non poteva essere più autorevole. Ci si riferisce, evidentemente, ad Aristotele, e segnatamente a quel discusso passo della Retorica in cui i celeberrimi vv. 450-457 sono interpretati nel senso di intendere gli ἄγραπτα νόμιμα come norme universali auto-evidenti alla coscienza umana, indipendentemente – direbbe un giurista moderno – dal diritto positivo vigente nei vari ordinamenti. Eppure, non mancano – ad un osservatore attento – gli indizi per dubitare finanche di Aristotele. Non certo per sminuire l’autorità del più grande filosofo del mondo antico, ma, evidentemente, per contestualizzarlo (e, verosimilmente, relativizzarlo). Nel momento in cui Aristotele scriveva, difatti, era già intervenuto un punto di svolta nella storia giuridica ateniese: era nel 403 a.C., infatti, che – all’indomani della sanguinosa guerra del Peloponneso e della caduta dei Trenta Tiranni – gli Ateniesi si diedero – diremmo in un eccesso di chiarezza semplificatrice – un “corpus” di leggi scritte, vale a dire decisero di porre in essere un complessivo riordinamento normativo, sistematizzando i principi e le regole giuridiche vigenti all’interno di un unico corpo scritto, con la precisazione che ogni regola che non fosse stata trasfusa in esso sarebbe stata considerata decaduta. Gli ἄγραπτα νόμιμα – le regole non scritte – perdevano diritto di cittadinanza nella polis.
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Procedendo, allora, in questa ardua opera di demitizzazione, incontriamo, ad adiuvandum, una prima tesi, particolarmente autorevole dal punto di vista storiografico, esposta da Giovanni Cerri nel suo storico lavoro del 1979 su Legislazione orale e tragedia greca, secondo la quale il conflitto che connota, nella tragedia sofoclea, il rapporto tra Antigone e Creonte è rappresentativo del generale confronto-scontro tra gli ἄγραπτα νόμιμα – interpretati come un “corpus” di consuetudini arcaiche, sovente di matrice religiosa, di cui erano depositari gli antichi ceti gentilizi – e il kèrygma di Creonte, espressione del diritto positivo della nuova polis (e, dunque, delle deliberazioni degli organi preposti a manifestare la volontà del corpo politico).
Scavi dal testo: la logica dell’appartenenza
Ma bisogna partire da uno scavo attento del testo. Perché la purezza sta proprio lì, nella parola che sorgiva, autentica restituisce dignità all’ascolto, che scorre lemmi forieri di possibilità all’interprete. E in questo scandaglio, in questo attacco al corpo del testo, analisi clinica e duello fisico procedono congiunti, seguendo il filo costante del confronto diretto, del guardare dritto il testo, dell’interrogarlo. In questo scandaglio, dicevamo, aurorale, in questa fase preliminare del confronto, soffermiamoci su una battuta di Ismene, sorella di Antigone, refrattaria a dare seguito agli stimoli di Antigone, pur non disconoscendone la bontà, ma ossequiosa al decreto di Creonte. Ella parlando della sorella fornisce un ritratto essenziale, il cominciamento a un discorso che voglia interessarsi seriamente a questo personaggio, ai suoi volti molteplici, alla sua interiorità – del personaggio e dell’opera. Dice Ismene, a proposito di Antigone: «Convinciti: è insensato andare, il tuo, ma retto modo d’appartenere a chi più t’appartiene». E il discorso di Antigone è un discorso che si tiene sempre dentro i confini dell’appartenenza. La sua logica – che sragiona, bene è vero, rispetto alla ragione del sovrano, e che nondimeno segue un principio normativo, un’ipotesi di discorso, un prolungamento, forse ragionevole, senza dubbio razionale – è logica dell’appartenenza, del ‘mio’ contrapposto all’Altro – si direbbe con terminologia novecentesca –, al diverso ovvero a quello che è “ektròn”, cioè “nemico”, come appare definito in frequenti passi sofoclei. Rivolgendosi a Ismene, Antigone chiarisce da principio questa logica del contrasto nell’opposizione più radicale, pura, essenziale: «Non vedi quali sciagure da parte dei nemici (ektròn) muovono contro i nostri cari (fìlous)?»(v.10). Sicché il movimento di Antigone non ha via, dunque, nell’andare-verso, nella direzione di qualcosa, non ha significato in un’ottica meramente finalistica. Nel senso di un movimento orizzontale, nel senso di una normatività orizzontale, di un diritto “a mezz’altezza” (come verremo esplicitando) il suo andare non torna, non ha significato logico, è irragionevole. Oltre che nei versi già citati («E’ insensato andare, il tuo»), ciò è già detto da Creonte – il rappresentante della logica contraria a quella di Antigone, la logica della polis, quella appunto orizzontale, di “mezz’altezza”- molto bene, quando dice al popolo: «E questa appunto (n.d.r., la morte) sarebbe la sua ricompensa (misthòs) (n.d.r., di chi violasse il decreto): ma la speranza di guadagno (kèrdos) spesso manda gli uomini in rovina». Eppure, il senso dell’esistere non sta solo nella strada che va, e in quella che torna, nel movimento che va da a a b, e ritorno, ma anche nella possibilità di congiungere questi ed altri punti lungo traiettorie potenzialmente infinite. Ed è una di queste che appunto Antigone intraprende. Antigone non è interessata, invero, al misthòs, alla ricompensa di chi ascolta e obbedisce al comando che conviene ascoltare, per timore di sanzioni in vita; Antigone segue un altro principio normativo (nomos), e nel seguire quello – che sta molto più in basso della terra, e molto più in alto del cielo – fa dei conti diversi, quelli di un guadagno/rovina non immediato (com’è il misthòs), ma futuro, a venire, più vero e profondo, di ampio respiro (kèrdos). Per quanto, nella bocca di Creonte, i termini siano rispettivamente meglio traducibili rispettivamente come ‘sanzione’ – derivante come conseguenza dell’illecito – e ‘vantaggio personale’, nel senso del riuscire a “farla franca”, perseguendo con successo il proprio vantaggio individuale a dispetto dell’osservanza del decreto vincolante i consociati.
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La logica dell’appartenenza, invero, si esplica in Antigone secondo gradazioni. ‘Mio’ dunque ‘familiare’ è senz’altro il fratello, la famiglia, cioè il ghenos, appunto; ma anche coloro che si conoscono, gli amici, e così infine i cittadini. Questa logica dell’appartenenza dunque non è del tutto estranea al popolo, e perciò forse non è esclusivo appannaggio del ghenosaristocratico (e il problema, come vedremo, non è del tutto secondario, ai fini ad esempio del qualificare quel principio normativo, secondo quanto si dirà, come uso o consuetudine). La comunità sente, percepisce che gli ordini del re sono non genuini, che c’è qualcosa che non torna in essi, che essi non risplendono nella controluce della verità, ma obbedisce comunque al re – secondo Antigone esclusivamente per viltà. Invece, proprio nel rapporto tra vita e morte, in questa sorta di dialettica dell’imperscrutabile, Antigone annoda nel senso dell’appartenenza, del filèin e non della contrapposizione, non del nemico, dell’Altro. Ed ecco come ha da interpretarsi la frase forse più nota della tragedia, quella tradotta malaccio forse anche con un po’ di malizia – che sta dalla parte di chi sta nella ragione, magari, ma non nel vero – quando Antigone. nel serrato dialogo con Creonte esclamerebbe (e il condizionale è doveroso): «Sono nata per amare, non per odiare». Molto meglio traduce Savino: «Non nodo d’odio; nodo con i miei è la mia essenza». Questa è la logica dell’appartenenza da Antigone ribadita a dispetto di quella creontea. Laddove Creonte afferma: «Reputo pessimo governante chi stima più importante della propria patria una persona cara (antì tès autù pàtras/ fìlon)» (vv. 182-183), Antigone risponde con logica simmetricamente opposta che sulle ragioni della polis prevale la famiglia (ghenos). E’ sull’impossibile dialogo di princìpi opposti che si fonda il comico-tragico del dialogo strettissimo – in sticomitìe – tra il re e la “ribelle”. Laddove Creonte tenta di rivendicare il ruolo che il fratello Polinice ha rispetto alla logica della polis, cioè quello di “empio”, Antigone dice: «É mio fratello». «Non uno schiavo, una cosa. Un fratello m’era morto» (trad. Savino, v.517). Il che peraltro esclude evidentemente che ci sia in Antigone la volontà di rivendicare istanze morali universali. Bensì la figura che rifulge è quella di un’Antigone custode e paladina delle consuetudini aristocratiche arcaiche in contrapposizione alla logica del diritto “posto” della polis. Ricostruiamo dunque il senso della arcinota frase. Dice Creonte: «Ma il nemico (ektròs) non è mai caro (cioè ‘tuo’, fìlos) neppure quando muore». Cioè Creonte afferma il paradosso del ritenere familiare, cioè proprio, un nemico della polis. Fin dall’inizio – lo abbiamo visto – Antigone afferma la propria logica come contrapposizione tra amico e nemico. Epperò come si atteggia rispetto a questa Polinice? Egli è – dice Creonte – nemico, e non caro (fìlos). E, rispetto a questo, la morte non cambia nulla. A lui controbatte Antigone: che cosa c’entra la morte? La morte impone solo un altro criterio normativo prevalente (Ade). Cioè a dire, “quello che mi lega a Polinice non è un rapporto di inimicizia (sunèktein) bensì rapporto di parentela (sumfìlein)” (v. 523). E questa sarebbe la traduzione più opportuna, perché in grado di rendere il senso vero della contrapposizione insanabile tra criteri normativi inintersecabili. Per concludere sul tema dell’appartenenza – necessariamente congiunto con quello del nomos – appaiono dunque più chiare le parole, di poco successive, di Ismene, appena pentitasi della propria scelta di non perseguire il progetto della sorella, quando, rivolgendosi a quest’ultima, esclama: «καὶ τίς βίος μοι σοῦ λελειμμένῃ φίλος;» (v. 458), ove la traduzione corretta è in realtà: «E quale vita mi sarà lasciata cara (cioè a dire, amica, familiare) senza di te?». Cioè, se tu muori, chi (quale vita, quale “rappresentante”, potrebbe ancora dirsi) mi resta ancora del ghenos? Tanto che Antigone le risponde aspramente, quasi a voler dire: “chiedilo a Creonte“. Come a dire: ora non sposi più, cara sorella, la logica di Creonte della polis, ma quella del ghenos, “il dovere del sangue”?
Il problema nodale: Quale nomos? ovvero La stasis nel nomos
Resta ancora da chiedersi: quale nomos (principio normativo) Antigone contrappone a quello creonteo, alla logica della polis?
Nella prospettiva suvvista non sarebbe per niente possibile immaginare uno scontro tra diritto naturale e ius positum, o – se si vuole – tra morale o religione e diritto. Semmai, il conflitto sarebbe tutto interno al nomos, tra un sistema di norme consuetudinarie, supposte esistenti “da sempre e per sempre” – espressione di un assetto di poteri, egemonizzato dai ghène aristocratici, consolidatosi nel tempo ma ormai traballante nell’epoca classica – , e un “nuovo” diritto, frutto dello stabilizzarsi della polis democratica, di cui Creonte – quantunque assuma il ruolo del monarca nel mito e nella tragedia – è solo il simbolo. Impensabile, dunque, appare la figura di Antigone come paladina della disobbedienza civile o di un supposto diritto di resistenza ante litteram in nome di una “natura” superiore da restituire alla città viziata da un diritto ingiusto, a maggior ragione se si pensi che, per tutto il corso della tragedia, non si rinviene neppure un solo richiamo alla physis in alcuna delle argomentazioni dei personaggi in dialogo. Né, parimenti, come pur sottolineava autorevole dottrina (Talamanca), è verosimile “degradare” il kèrygma di Creonte, sino al punto di non considerarlo alla stregua di un nomos: ciò – si badi – contrasta non soltanto con una ricostruzione storica attenta ed equilibrata del contesto, ma con la stessa lettera del testo, come dimostra l’uso del termine nomos, in relazione alle manifestazioni di volontà di Creonte sovrano, in almeno sette versi (su cui, v. Stolfi, Dualità nomiche, p. 111).
Come ha rilevato, in particolare, Emanuele Stolfi, l’essenza autentica della tragedia (o, se si vuole, la tragedia nella tragedia), risiede proprio non già nella radicale alterità tra l’ordine consuetudinario e la prescrizione di Creonte, quanto piuttosto nell’ “ambiguità” e nella “dualità” del nomos. L’opzione interpretativa dell’Autore ci spinge, peraltro, a ridimensionare parzialmente alcune delle stesse premesse da cui siamo partiti, ricordando la meritoria opera di Cerri, o – per meglio dire – a completarle, con una puntualizzazione che contribuisca a cogliere la complessità delle “sfumature” del tema: è vero che lo sfondo storico è connotato da un superamento delle consuetudini arcaiche nella prospettiva di un diritto (ché pur sempre di diritto positivo si tratta) scritto di matrice volontaristica, ma – e qui si coglie, in fondo, la delicatezza e l’ambiguità del problema – il kerygma di Creonte non è necessariamente una manifestazione scritta di volontà del sovrano, atteso che in alcuni passi della tragedia si fa riferimento al kerygma “pronunciato” dal monarca. Evidentemente, Sofocle intendeva restituire maggiore complessità alla “dualità nomica”, dipingendo un contesto in cui il diritto prodotto dal sovrano non si era ancora necessariamente cristallizzato in disposizioni scritte, ma egualmente poneva un problema di concorrenza con le consuetudini arcaiche delle famiglie aristocratiche.
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Antigone, dunque, come, per quanto traduzione ad alcuni invisa, “rappresentante del ghenos”, della stirpe. Il suo nome letteralmente ha il senso del rappresentare, del nascere contro, o meglio in sostituzione di altri per perpetuare, si direbbe, il ghenos. A tutto forse si potrebbe cercare ancora di muovere obiezione, ma la bontà di questa ricostruzione emerge in maniera inconfutabile dall’analisi di un passo della tragedia assai controverso – al punto che qualcuno, cui evidentemente non tornava utile inserirlo, l’ha direttamente eliso nella traduzione (v. Cetrangolo). Antigone, isolata in prigione, confessa i motivi – che coincidono con il nomos – del suo agire:
E anche ora, o Polinice, per avere coperto il tuo corpo questa sorte ottengo. Eppure io ti resi onore giustamente, per chi ha senno. Infatti, mai, né se fossi divenuta madre di figli, né se fosse stato il cadavere di mio marito a corrompersi, io mi sarei assunta questo ufficio contro il volere dei cittadini. E in forza di quale principio [νόμος] lo affermo? Morto il marito, ne avrei avuto un altro; e da un altro uomo avrei avuto un figlio, se quello mi fosse mancato: ma ora che mia madre e mio padre sono in fondo all’Ade, non è mai più possibile che mi nasca un fratello. Eppure poiché secondo questa legge [νόμος] ti ho particolarmente onorato, è sembrato a Creonte che questa fosse una colpa e che io abbia osato una cosa terribile, fratello mio.
(vv. 904 succ. trad. Cantarella).
Si vedano le lamentele di Goethe su questo passo. Emerge limpido qui il senso dell’agire di Antigone: ella ha dato sepoltura al fratello, perché elemento solido del ghenos, in quanto insostituibile (antì genein: nessuno potrebbe nascere in sua sostituzione) e lo esplicita letteralmente, con controesempi: «Morto il marito, ne avrei avuto un altro; e da un altro uomo avrei avuto un figlio, se quello mi fosse mancato: ma ora che mia madre e mio padre sono in fondo all’Ade, non è mai più possibile che mi nasca un fratello». Attenzione, questo è il principio normativo (nomos) sulla base del quale Antigone agisce. E’ qui esplicitato il senso di “nomos”, termine cui Antigone frequentemente si riferisce.
Il vero dramma dell’Antigone, dunque, a ben vedere, è dato dalla circostanza che nomos è sia il mondo delle consuetudini aristocratiche, di sangue, sia il kerygma di Creonte, espressione della nuova sovranità . Da una parte, un nomos che, dietro l’aura di un’antichità terrigena, si pretende in realtà diseguale – perché parziali ne sono i depositari – , dall’altra un nomos che, promanante da un vertice , si immagina eguale e livellatore. Antigone – che rivendica la sua differenza – contro Creonte – che rivendica l’isonomia.
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Ma la differenza che Antigone sostiene – si badi – non è legata alla sua individualità, al suo essere in quanto essere. La stessa immagine hegeliana di un’Antigone espressione dell’individualità è, allora, fuorviante. Anzi, se proprio a categorie hegeliane è possibile ricorrere, Antigone è espressione della forma di eticità più elementare, quella della famiglia, del ghenos o, ancor meglio, del sangue. Cui si oppone, inevitabilmente, la formalità di un diverso modo di intendere il nomos, fatto proprio da Creonte, la cui logica non può conoscere differenze e privilegi, ma al contrario ha una vocazione intrinsecamente livellatrice dei medesimi (la logica dell’isonomia). Antigone, allora, non infrange il kerygma in nome di una fantomatica umanità, né tantomeno per rivendicare la sua libertà: ella viola la prescrizione di Creonte rivendicando il privilegio del sangue. Senza Polinice il ghenos non ha futuro. E senza sepoltura neppure la sua dignità.
In questa ambiguità del nomos, in questa profonda e drammatica “dualità” nell’intendere il nomos, si consuma la tragedia. Ecco, allora, l’emergere della stasis. La stasis della stirpe dei Labdacidi, condannata a destini infausti. La stasis della polis, che vive il dissidio del nomos, “divisa” in un conflitto lacerante (la “città divisa” di Nicole Loraux). La stasis “nel nomos”.
Articolo di Domenico De Martino e Paolo Piluso
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