All’interno dell’attuale contesto socio-politico italiano (scarsa partecipazione alla vita dei partiti e alle tornate elettorali, connotati fortemente leaderistici e verticistici del consenso, perdita di sovranità delle istituzioni nazionali in funzione delle istituzioni europee e dei poteri finanziari sovranazionali) con il voto di ieri sulla riforma costituzionale si chiude definitivamente l’epoca parlamentare della nostra democrazia e approdiamo a un nuovo sistema politico: alcuni già lo definiscono «premierato assoluto in una cornice di democrazia minoritaria», ma tanto ancora abbiamo da capirne, da studiarne e da scriverne.
Se si dovesse riassumere in poche parole la storia politica italiana degli ultimi decenni, è perfetta un’espressione di Michele Prospero: «la discontinuità delle forme dell’antipolitica nella continuità dei ceti dominanti al potere». Dopo la fine della Prima Repubblica in seguito a Tangentopoli, con l’inizio della crisi delle istituzioni e dei partiti strutturati, abbiamo prima avuto Silvio Berlusconi, espressione anti-politica di una pulsione anti-Stato ed anti-legalità da sempre parte fondante della cultura dei ceti-medio alti; poi è “nato” il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, espressione di un’antipolitica esterna al sistema, e infine è stata la volta di Matteo Renzi, riferimento di un’antipolitica interna al sistema (un “no alla casta”, da parte di una parte della casta stessa, per farla molto semplice).
In questa sua funzione di riferimento dell’antipolitica interna al sistema, Renzi ha portato a compimento una restaurazione neo-liberale, dove con “restaurazione” si intende un tornare indietro andando comunque avanti: il “cambiare verso” insomma, una finzione di progressismo all’interno di un disegno politico fortemente conservatore. Questa restaurazione neoliberale si è attuata su tre fronti principali: 1) trasformazione del Partito Democratico in un Partito della Nazione, rappresentante dei centri di potere organizzati e della piccola e grande imprenditoria (i cui interessi diventano quelli della “Nazione” tutta); 2) attacco al lavoro, ai sindacati e alla cultura sindacale (Jobs Act, abolizione Articolo 18, intenzione di cancellare la Contrattazione collettiva), in vista di una competitività del nostro sistema economico da giocarsi sul terreno della svalutazione del costo del lavoro; 3) riforma della Costituzione nella direzione del potenziamento del potere esecutivo e delle trascrizione istituzionale del leaderismo politico.
Da questo disegno emerge una chiara visione del futuro della società italiana: il sistema produttivo italiano deve inserirsi nei meccanismi della globalizzazione economica, occorre ridurre al minimo grado possibile le dimensioni dello Stato e le istituzioni devono soprattutto costruire un contesto socio-economico favorevole all’ordine politico funzionale agli investimenti esteri nel nostro territorio nazionale e all’aumento del potere di mercato (aumento delle esportazioni) delle nostre imprese, da cui in teoria dovrebbe derivare un aumento dell’occupazione.
È una visione del futuro della società italiana che colloca il PD (attuale, e in prospettiva) nel centro-destra della geografia politica. Non si tiene infatti conto delle diseguaglianze socio-economiche che conseguono da un tale stato di cose, anzi si accettano come fatto costitutivo della nostra società: la politica svolga il suo compito di stimolo e tutela dell’impresa, gli imprenditori investano e i lavoratori dipendenti lavorino accettando senza fiatare un mercato del lavoro flessibile e precario; si riducono i servizi pubblici in funzione dell’erogazione privata, creando dislivelli nelle possibilità di accesso da parte dei cittadini appartenenti a differenti fasce di reddito; si affida lo sviluppo socio-economico alla dinamiche dell’interazione tra i privati, con un intervento progressivamente minore delle autorità pubbliche.
Nell’attesa (che potrebbe essere vana) che si formi l’Europa politica e si trasferiscano sul piano europeo tanti degli strumenti di welfare attualmente nazionali (sistemi e fondi per il diritto allo studio, per il sostegno al reddito, per l’accesso universale ai servizi essenziali), una certezza c’è: un partito come il Partito della Nazione e una visione politica come quella della maggioranza renziana sono due elementi che i ceti dominanti italiani attendevano da decenni, probabilmente da quando il regime fascista è caduto: pur con tutte le differenze del caso, il Partito della Nazione che verrà, con la sua visione liberista della società e dell’economia e la sua concezione illiberale della democrazia (si rappresenta non una parte della società, ma la società intera, la “Nazione”), svolgerà straordinariamente bene la funzione di tutela degli interessi del capitalismo italiano, in un modo totalmente diverso eppure con risultati straordinariamente simili a quelli del fu Partito Nazionale Fascista di Benito Mussolini.