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Buenaventura Durruti e il mito della Guerra di Spagna

Ogni guerra ha le sue figure leggendarie, e la guerra civile spagnola non fu da meno: le imprese dell'anarchico Buenaventura Durruti lo fecero entrare nell'immaginario collettivo del tempo

4 minuti di lettura

In ogni guerra o epopea che si rispetti, si aggirano figure leggendarie, ai limiti dell’incredibile, capaci di farsi ammirare al di là delle divisioni tra i popoli, delle epoche storiche o delle idee. Se la Grande Guerra ebbe il Barone Rosso e Lawrence d’Arabia, se la guerra dei Cent’anni ebbe Giovanna d’Arco e se Garibaldi fu l’eroe del Risorgimento, una guerra come quella di Spagna, fatta a vent’anni e piena di ideali, non poteva che avere un mito: Buenaventura Durruti

Le origini di Buenaventura Durruti

Durruti non era un eroe raffinato, pieno di brillantina e in frac. Aveva la pelle dura e abbronzata, la barba perennemente incolta e un’espressione testarda da contadino. Solamente i suoi piccoli occhi brillavano, pieni di passione e coraggio. Aveva l’aria di uno pragmatico, taciturno, disciplinato. A prima vista sembrava uno sportivo, forse un ciclista, e tutto in lui rivelava la sua estrazione proletaria. Originario di Leon, era nato in mezzo a 8 fratelli nel 1896. Il padre era un tranviere, e tutto faceva pensare a un destino simile anche per il piccolo Buenaventura. A 14 anni lasciò la scuola e iniziò a lavorare, ma continuò a leggere moltissimo. E proprio queste sue letture gli diedero un avvenire diverso. Si avvicinò man mano alle idee anarchiche e iniziò la militanza nel sindacato. Poi, nel 1917, partecipò allo sciopero generale indetto dalla Confederación nacional del trabajo. La polizia sparò sulla folla. Risultato: 70 morti, 500 feriti e 2000 arresti. Buenaventura potè considerarsi fortunato ad aver solamente perso il posto alla fonderia in cui lavorava. 

buenaventura durruti

Prima della Guerra di Spagna

Durruti si trasferì dunque a Gijon, dove stavano molti compagni e dove rimase fino a quando venne richiamato per il servizio di leva, al quale, ovviamente, non si presenta. Fu dichiarato renitente e costretto all’espatrio.

Simone Weil militante della Colonna Durruti

Per la precisione, espatriò a Parigi, che in quegli anni ribolliva di anarchici (in larga parte italiani), scrittori, artisti, poeti, intellettuali e avventurieri. Era, in quegli anni, davvero il centro del mondo. Nel 1920, però, Durruti fu di nuovo in Spagna, a Barcellona, dove vivacchiò nel sindacato, pur senza accettare ruoli dirigenziali (dice «L’importante non è il posto di responsabile. L’importante è la vigilanza della base per obbligare quelli in alto a fare il loro dovere senza morire nella burocrazia»). Nel frattempo, quasi per ammazzare il tempo, progettò con qualche amico un attentato al re di Spagna e qualche altra azione terroristica. Niente di serio, ma quanto basta per farsi cacciare dal paese. Buenaventura Durruti fuggì in Sud America per poi tornare clandestinamente in Francia, dove fu puntualmente preso dalla polizia e processato per quelle fantasie su re Alfonso. Gli anarchici di tutta la Francia (che, come si è detto, non erano pochi) si sollevarono in favore suo e dei suoi amici, tanto da farli liberare dopo un lungo processo avvenuto più sui giornali che nelle aule di tribunale. Durruti tornò in Spagna, ma tranquillo non ci sapeva stare e partecipò a sommosse antigovernative fino a che non fu spedito in un carcere alle Canarie. Ci rimane fino al 1936, quando scoppiò la guerra civile. 

La colonna Durruti

Tornato in terraferma, Buenaventura Durruti cominciò a distribuire le armi al popolo insorto e si mise alla testa di una milizia di anarchici, la Colonna Durruti, che raggiunse quasi la cifra di 10mila uomini. Si formava qualcosa di molto simile a una rivoluzione comunista, tra soviet e distruzione di chiese, e a migliaia venivano da ogni luogo del mondo per vedere quella che sembrava una ripetizione del 1917. Migliaia di uomini (e donne!) si volevano arruolare con Durruti, imbracciando le armi fornite dalle fabbriche insorte autogestite.

filmato di propaganda che riprende Durruti e il suo funerale

Come pellegrini laici, i soldati di Durruti si avventuravano per una Spagna ancora selvaggia e desertica. Sui camion campeggiava la scritta CNT (Confederación nacional del trabajo). Dappertutto il loro stendardo rosso e nero. Marciavano inarrestabili di città in città, sotto il sole e le pallottole, in mezzo ai polveroni di terra gialla che i camion alzavano al loro passaggio. Una volta giunti in un villaggio, il modus operandi della colonna Durruti era più o meno questo: si deponeva il giudice, si bruciavano gli atti giudiziari e si svuotavano le carceri. Solo a quel punto Durruti redistribuiva le terre e talvolta, quasi per togliersi uno sfizio, aboliva anche la moneta. Poi, il comandante se ne andava verso nuove conquiste. Come racconta Koestler, i militanti si portarono di tutto, tranne le zappe: «Andiamo a combattere, non a lavorare!».

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Ci voleva poco perché Buenaventura Durruti e la sua colonna diventassero un mito in tutto il paese, tanto tra gli alleati quanto tra i rivali. Con il suo fascino da esploratore, Durruti si presentava all’alba alle porte di villaggi piccoli, gialli, isolati e silenziosi, alla testa dei suoi gendarmi del disordine, a portare la libertà e la follia, per poi andarsene, come se nulla fosse, scomparendo nell’ignoto. Il grido era «Ni Dios, ni amo» (Né Dio, né padrone) e in una Spagna in cui c’erano tutti, da Hemingway a Malraux, anche Simone Weil prese parte alla colonna, senza però sparare mai, vista la forte miopia, un colpo.

La bandiera della colonna Durruti. CNT (Confederacion nacional del trabajo) e FAI (Federacion anarquista ibérica)

L’epilogo di Buenaventura Durruti

Fu, quella del 1936, un’estate di libertà, un’estate di anarchia, in cui comunisti e anarchici di tutto il mondo si unirono per la Spagna repubblicana, squarciata da una guerra terribile e romantica, vera e propria prova generale dell’autodistruzione che l’Europa avvierà qualche anno più tardi. Ma ogni estate, anche la più bella, deve finire, e così doveva finire anche l’epopea di Durruti, il soldato invincibile, che nessun acciaio mai avrebbe potuto piegare. 

Buenaventura Durruti sarebbe scomparso nella leggenda il 20 novembre 1936, in circostanze mai chiarite. Quel che è certo è che fu ucciso da un colpo di pistola. Chi lo sparò, non si sa: forse un cecchino fascista, forse un comunista o un anarchico ribelle, forse lui stesso, per sbaglio. In fondo, è meglio che se ne sia andato così, all’improvviso e nel mistero – la migliore delle uscite di scena.

Due giorni dopo, si tennero i funerali a Barcellona con un milione di persone. Tutti volevano partecipare fisicamente alla morte palpabile di un uomo che era considerato invincibile, di un mito, a metà tra realtà e fantasia. Con lui moriva un’estate di anarchia, in cui tutto era sembrato possibile, persino la sconfitta dei fascisti. Poco dopo sarebbe morta anche la Spagna libera per cui aveva combattuto. Le ultime parole di Buenaventura Durruti non potevano che essere «seguir luchando» (continuare a combattere).

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