Le immagini possono risvegliare le coscienze come una premessa necessaria all’avvio di qualche azione. Un’immagine è come un appello a fare qualcosa, non soltanto a sentirsi turbati o indignati. L’immagine dice: Basta! Intervenite, agite!»
Sebastião Salgado è nato nel 1944 ad Aimorés, in Brasile. Nonostante si sia accostato alla fotografia in età piuttosto tarda, oggi è considerato uno dei fotografi più importanti e influenti al mondo. Quando, infatti, decide con la moglie Lèila Deluz Wanik di lasciare il suo paese avviato verso la dittatura e trasferirsi a Parigi, ha già conseguito un master in Economia e ha collaborato con il Ministero delle Finanze brasiliano. Dopo aver conseguito un dottorato alla Sorbonne parte nel 1971 alla volta di Londra. Intanto la moglie si era iscritta alla facoltà di Architettura e aveva acquistato una fotocamera Pentax, che in poco tempo esercitò un fascino non indifferente su di lui. Presto Salgado, influenzato soprattutto dalle esperienze lavorative in Africa, abbandona le vesti dell’economista per abbracciare appieno la carriera di fotografo nel 1973. Tornato a Parigi inizia a collaborare con importati agenzie come la Sygma e la Gamma per le quali fornisce numerose testimonianze riguardo le lotte in Angola e in Mozambico e la rivoluzione portoghese dei Garofani del 1974; avvia, poi, una collaborazione con la prestigiosissima agenzia Magnum.
Quando nel 1981 si trova negli USA per conto del The Times, assiste al fallito attentato a Ronald Reagan: le 76 foto che scattò in quell’occasione gli valsero un successo internazionale e fecero il giro del mondo.
30 marzo 1981: attentato a Ronald Reagan.
Parallelamente, tra il 1977 e il 1983 si dedicò a diversi lavori personali, documentando le difficili condizioni di vita dei migranti in Europa e dei contadini nel Sud America e il tentativo di sopravvivenza culturale degli Indios.
La sua fotografia vuole mettere a nudo realtà lontane dall’immaginario borghese occidentale, mostrando la fame e la fatica, sempre con la compostezza e l’ordine che contrastano con la drammaticità delle situazioni, proprio per accentuarne i toni.
«È vero, quando fotografo io respiro la fatica dell’uomo, i suoi ritmi, le sue angosce. Ma vivaddio, anche le sue speranze».
Guatemala, 1978. Una prostituta osserva da una piccola finestra una bambina che porta mele caramellate al mercato. L’immagine sembra essere divisa in due sezioni e lo stipite della porta segna un confine fra due mondi: quello luminoso della bambina con gli occhi ridenti e quello della donna dagli occhi malinconici, con il viso avvolto dall’unica sezione d’ombra della foto.
Sartão, 1983. Le ossa di capi di bestiame morti in seguito alla siccità vengono utilizzate dai bambini per giocare. Le ossa sono sparse per tutto il pavimento conferendo un tono macabro alla fotografia; un sapiente utilizzo delle ombre evidenzia i corpi esili dei piccoli, disposti quasi a formare una cornice per l’immagine.
Nel corso degli anni si delinea via via il suo modus operandi e il fotografo decide, in definitiva, di impegnarsi in tre progetti: La mano dell’uomo, In cammino e Genesis. Le sue opere sono frutto di un «viaggio continuo» e ogni foto rappresenta un meccanismo importante per raccontare la storia generale: una narrazione che per Salgado tratta della realtà più dura e faticosa.
In particolare, in La mano dell’uomo – Archeologia dell’era industriale (1993) cerca di rappresentare la lenta e inesorabile scomparsa del lavoro manuale.
Serra Pelada, 1986. Particolare rilevanza la ebbe il reportage sui garimpeiros, i cercatori d’oro brasiliani. In questo scatto del 1986, la vera protagonista è la strenua lotta dell’uomo contro la natura e contro la fatica. Come sempre in Salgado, prevale l’ordine: centinaia di persone in fila collaborano, tanto che la panoramica sembra inquadrare un operoso formicaio.
Nel 1994 decide, con la moglie, di fondare la Amazonas Images e successivamente tra il 1994 e il 1999 si dedica ad immortalare le difficili condizioni dei migranti di tutto il mondo: nasce In Cammino.
Vietnam, 1995. A Ho ChiMinh City si sono rifugiati molti contadini in fuga dalla guerra.
Zaire, 1997. I binari ferroviari sono affollati da profughi ruandesi. Dal terreno si alza del vapore, quasi a descrivere un inferno dantesco.
Zaire, 1994. Tre lattanti nell’orfanotrofio di un campo profughi. Risaltano gli occhi del bambino al centro, accesi, chissà, di sgomento o di stupore.
In definitiva, le fotografie di Sebastião Salgado sono scatti di denuncia, immagini forti che nell’ordine e nella simmetria evidenziano la fame e la miseria al fine di scuotere e risvegliare le coscienze addormentate e indifferenti dei più. Il suo viaggio continuo, nel tempo e nello spazio, vuole mostrare al pubblico la fatica del vivere.
Le sue opere hanno raggiunto un successo internazionale e lo pongono tra i più importanti esponenti della fotografia mondiale.
[…] di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado sulla vita e le opere del fotografo brasiliano Sebastião Salgado. Le sue vicende personali, alternate alle sue riflessioni sul mestiere del fotografo, danno un […]