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Con «Amore», Pippo Delbono porta a teatro la vita

L'attore e regista italiano, dopo il suo debutto al Teatro Storchi di Modena, torna in scena al Teatro Sociale di Trento e al Piccolo Teatro di Milano per l'ultima tappa italiana. Qual è il tema e lo scopo dello spettacolo?

2 minuti di lettura

Tra chitarra, voce, canto e gesti. Ma anche silenzi, assenze, vuoti. E ancora grida, feste e poi lacrime. È così che si sviluppa Amore, il viaggio che l’attore e regista Pippo Delbono regala allo spettatore. Un viaggio nei suoi sentimenti, per lui probabilmente catartico e per chi vi assiste certamente travolgente.

In scena il 17 e 18 maggio al Teatro Sociale di Trento, lo spettacolo, il cui debutto si è tenuto il 28 ottobre 2021 presso il Teatro Storchi di Modena, ritornerà in scena per l’ultima tappa italiana al Piccolo Teatro di Milano, dal 7 al 12 giugno.

Un flusso malinconico fra note e versi

È da una terra, il Portogallo, che parte la ricerca del regista. Ricerca del significato, o più semplicemente del modo più giusto per esprimere e comunicare un concetto, quello dell’amore, così personale e mutevole da sembrare inafferrabile e inspiegabile. Il Portogallo non è scelto a caso, poiché la sua atmosfera, vitale, passionale, eppure malinconica, ben si adatta a quello che è per Pippo Delbono l’amore oggi. Un amore che ha visto morire, fuggire per sempre dalle sue braccia e che ha lasciato un vuoto incolmabile e incomprensibile, un’assenza per la quale non si dà pace; un «lutto dell’amore del quale non riesco a parlare, fra amore e dolore, vita e morte».

Ed è così che la ricerca si espande, tra mezzi espressivi e continenti, tra momenti storici e significati. Questa ricerca folle e necessaria dell’amore imperativo diventa la danza dei morti in Messico, il canto popolare angolano di un uomo che perde la sua sposa durante la guerra d’indipendenza contro il Portogallo. Diventa i versi del poeta capoverdiano Daniel Damásio Ascensão Filipe, perseguitato, torturato e infine ucciso dalla dittatura fascista di Salazar nel suo Paese. O ancora, esplode nelle corde pizzicate e nella voce piena del fado, circondate da vuoto della scena, nel buio e nel silenzio della sala. «Dicono che il fado sia una preghiera. Quindi io prego».

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«Così è l’amore: mortale»

I toni sono caldi nel colore dominante della scenografia, il rosso, nelle luci nette, taglienti, capaci di investire il soggetto in scena e di duplicarlo in un’ombra grafica. I toni sono caldi nella voce dei cantanti, nella vibrazione degli arpeggi della chitarra classica, ma anche nelle parole non sempre comprensibili perché riportate nella lingua d’origine, ma in grado di suscitare puro sentimento e di trasmettere chiaramente il proprio significato.

Pippo Delbono mette in scena un canto, una dedica d’amore all’amore, all’impossibilità di non amare, anche nella sofferenza più estrema. È un «grido di speranza insensato», poiché, per il regista, «così è l’amore: mortale». Mostra vari volti, vari tipi di amore: per se stessi, per la patria, l’amore malato, violento, fragile, disperato, vero, beffardo, tremante di paura e sicuro di sé, prendendo in prestito le parole di Jacques Prévert che Delbono sceglie, accompagnando lo spettatore con la sua voce calda, come narratore e amico. Il regista sembra cercare in ciò che legge, che trova, che conosce non tanto una spiegazione, una risposta a questo sentimento complesso, quanto una modalità per esprimerlo, per esprimersi, chiarire innanzitutto con se stesso e poi con il pubblico un’emozione che pare, e forse è, sostanzialmente indefinibile. Allo stesso modo, direi inevitabilmente, è indefinibile lo spettacolo a cui si assiste.

«Sono tornato, amore. Sono rimasto, amore»

Il racconto di Pippo Delbono non è mai scontato, mai retorico, pur trattando un tema sì complesso ma molto spesso banalizzato. La sua forza sta nella messa a nudo dell’autore, che accompagna chi assiste allo spettacolo in un percorso caotico, totalmente personale ma che suscita inevitabile empatia, anche in chi un sentimento del genere non l’ha mai provato.

Amore è un viaggio a cui tutti dovrebbero prendere parte, una bella occasione per avvicinarsi al teatro meno convenzionale che, in questo caso, porta in scena in maniera unica e indimenticabile la vita.

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Rebecca Sivieri

Classe 1999. Nata e cresciuta nella mia amata Cremona, partita poi alla volta di Venezia per la laurea triennale in Arti Visive e Multimediali. Dato che soffro il mal di mare, per la Magistrale in Arte ho optato per Trento. Scrivere non è forse il mio mestiere, ma mi piace parlare agli altri di ciò che amo.

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