«Nessun uomo è un’isola»: non suona nuova questa citazione per chiunque abbia avuto la fortuna di imbattersi in una pubblicità in televisione (evento rarissimo oggigiorno). La frase è in realtà estrapolata da un sermone di John Donne.
Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te
John Donne, meditazione XVII
Queste righe emanano speranza, volontà di considerare l’umanità come una sola e indivisibile. «Nessun uomo è un’isola» perché viene completato solo attraverso la relazione che ha con gli altri esseri umani. Questa visione dell’umanità oggi verrebbe spontaneo definirla ingenua, ma per quale motivo? John Donne è vissuto tra il 1572 e il 1631, sarà sicuramente stato testimone di alcuni conflitti, ma non di quelli mondiali.
Immerso nella Storia
Coloro che tendono a vedere il bicchiere mezzo pieno non troverebbero nulla di sbagliato nella speranza di John Donne; Samuel Beckett non è uno di quelli. L’autore dublinese ha vissuto entrambi i conflitti mondiali, combattendo durante il secondo. Dunque parlare di uomo come isola in Beckett significa parlare di una ben precisa concezione: l’umanità che è stata colpevole di atrocità impensabili o che non le ha denunciate.
Nei suoi testi Samuel Beckett elimina qualsiasi proposito: in Aspettando Godot la trama è del tutto assente, ne L’ultimo nastro di Krapp è il dialogo ad avere la peggio e così si arriva poi a Giorni felici in cui dialogo, trama e movimento scenico non esistono più.
«Giorni felici» di Beckett
Interrata fin sopra alla vita, esattamente al centro del monticello, Winnie. Sulla cinquantina, ben conservata, preferibilmente bionda, grassottella, b…