Gli eventi dello scorso anno sembrano ripetersi, il tutto in un ciclo che sembra infinito e ormai prevedibile, ma che si aggrava del peso della tragedia ignorata. Nella notte tra il 18 e il 19 aprile, le forze militari israeliane sono tornate a bombardare la striscia di Gaza in risposta ad un lancio di missili rudimentali intercettati poche ore prima. Si tratta del culmine di una nuova escalation di violenze che questa volta avviene in pieno Ramadan e che, come lo scorso anno, può sfociare in nuovi bombardamenti a Gaza e in un’ancora più violenta politica di repressione in Cisgiordania.
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E mentre l’Europa si focalizza su un conflitto interno dall’esito imprevedibile nel cuore del Medio Oriente, oggi scombussolato dalla crisi economica libanese e da possibili nuovi scenari in Siria, continua a consumarsi la violenza, questa volta, forse, a riflettori internazionali ancor più spenti e «distratti» che in passato.
Il sangue di marzo e aprile
Seppur le azioni repressive dell’IDF (le forze di difesa israeliane) non siano mai cessate, negli scorsi mesi la politica repressiva in Cisgiordania si è fatta ancora più aspra.
Sin dal 1967, questa parte dei territori palestinesi è sotto un’occupazione militare che limita enormemente gli spostamenti da una città all’altra, la libera circolazione e i diritti umani. Inoltre, al suo interno, sono in continuo aumento insediamenti israeliani, illegittimi secondo il diritto internazionale, che riducono giorno dopo giorno il territorio dei palestinesi. Proprio in questa regione, negli ultimi giorni, si sono intensificati i raid e le incursioni israeliane.
Alla fine del mese di marzo un uomo palestinese ha ucciso cinque israeliani nella periferia di Tel Aviv, in Israele. L’attacco era stato preceduto, la settimana precedente, dall’uccisione di altri quattro civili da parte di un palestinese con cittadinanza israeliana e dall’uccisione, da parte di due simpatizzanti dello stato islamico, di due poliziotti israeliani nei pressi della città di Adera.
Dopo questi eventi, le forze israeliane hanno dato il via a rastrellamenti quotidiani del campo profughi di Jenin, nuovi arresti e altre uccisioni in Cisgiordania: tra queste, quella di una donna 47enne disarmata, uccisa a colpi di arma da fuoco a Husan, vicino Betlemme e quella della diciottenne Hanan Kadhour colpita a morte mentre tornava da scuola proprio nei pressi di Jenin.
Secondo euro-msd monitor, al 15 aprile, dall’inizio dell’anno le forze israeliane hanno ucciso 47 palestinesi di cui 8 bambini. Di questi, 29 sono stati uccisi senza apparente giustificazione o coinvolgimento in alcun tipo di circostanza criminosa.
La situazione a Gerusalemme
Lo scorso anno ha fatto il giro del mondo il caso di Sheikh Jarrah ovvero il quartiere di Gerusalemme Est dove alcune famiglie palestinesi erano state espulse ed altre rischiavano di esserlo, per far spazio alle case di cittadini israeliani. Da allora le espropriazioni, anche in altri quartieri della città, e le intimidazioni non sono cessate imponendo a molti palestinesi di trasferirsi altrove, dopo aver visto la loro casa esser demolita da un bulldozer.
Nella città che Israele ha dichiarato unilateralmente sua capitale indivisa, le tensioni sono sempre alte, ma sono esplose nuovamente proprio nel corso del mese sacro per i musulmani.
Il 18 aprile i soldati israeliani hanno fatto irruzione nella moschea di Al-Aqsa arrestando e ferendo centinaia di persone, dopo alcuni giorni di scontri nella zona della spianata delle moschee, in un atto simile a quello dello scorso 10 maggio al quale Hamas rispose con il lancio di alcuni missili da Gaza.
La mezzaluna rossa palestinese ha dichiarato che i militari israeliani avrebbero anche ostacolato l’arrivo delle ambulanze e dei soccorsi ai feriti.
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La tensione è salita anche a causa della richiesta di gruppi dell’estrema destra israeliana di marciare nella città vecchia con la bandiera, in modo da sancire la loro supremazia. Richiesta che è stata negata, però, dal primo ministro israeliano.
Intanto, il partito arabo-israeliano Lista Araba Unita, proprio a seguito degli scontri degli ultimi giorni, ha deciso di uscire dalla coalizione di governo. Un segnale di forte frattura per tutti i palestinesi con cittadinanza israeliana.
I rischi
Lo scorso anno, l’escalation di violenze portò a bombardamenti per 11 giorni della striscia di Gaza, con l’uccisione di 250 persone tra cui dozzine di bambini. Israele giustificò l’attacco affermando di colpire punti militari strategici di Hamas, che da alcuni giorni lanciava razzi sulle città israeliane, quasi tutti intercettati dal sistema difensivo Iron Dome.
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Un evento drammatico che potrebbe ripetersi dato che Fawzi Barhoum, un portavoce di Hamas, ha dichiarato a seguito dei fatti di Gerusalemme che «la forza sarà affrontata con la forza». Ma ad essere in pericolo è anche la già poca libertà di cui i palestinesi godono in Cisgiordania, nonché la sicurezza generale in Cisgiordania e in Israele. Il 30 marzo Naftali Bennett, primo ministro israeliano, aveva commentato gli attacchi nei confronti dei civili israeliani affermando di aver deciso di aumentare la presenza militare in Cisgiordania, invitando i civili ad andare in giro armati.
Il ruolo delle organizzazioni internazionali
Nel febbraio di quest’anno, Amnesty International ha pubblicato una ricerca in cui accusa lo stato ebraico di imporre un sistema di oppressione e dominazione sulle e sui palestinesi in tutte le aree sotto il suo controllo, in Israele e nei Territori occupati, e contro i rifugiati palestinesi, in modo che a beneficiarne siano le e gli ebrei israeliani. Ha definito il tutto una situazione di apartheid, proibito dal diritto internazionale.
Non si tratta della prima organizzazione che parla apertamente di apartheid israeliano. L’aveva fatto lo scorso anno Human Rights Watch, nonché altre organizzazioni tra cui l’israeliana B’tselem.
Lo spingere, attraverso la pubblicazione di report e testimonianze, al cambiamento di una prospettiva occidentale in cui israeliani e palestinesi sono sullo stesso piano di violenza e condividono lo stesso piano di responsabilità, portando alla luce le discriminazioni e le violenze quotidiane operate nei territori occupati e non solo, è un passo fondamentale per permettere anche alla politica, oltre che alla società civile, di intraprendere la strada di una condanna effettiva e non solo formale.
Perché su questo piano, fino ad ora, la politica internazionale e anche buona parte del giornalismo hanno già perso.
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