Gli ultimi giorni di dicembre hanno sempre rappresentato un momento affascinante e liberatorio, conosciuto ai più con l’espressione “il tempo dei bilanci”. In parole povere si tirano le fila dell’anno appena trascorso, si ripensa a tutto ciò che si è fatto o che si poteva fare meglio, a tutti i viaggi, tutti gli amori, tutti i dolori, tutte le soddisfazioni personali raggiunte. I più ottimisti guardano il bicchiere mezzo pieno e si proiettano verso l’anno nuovo con spirito costruttivo e buoni propositi. A chi scrive in questi giorni piace guardare indietro, non troppo, ad un passato vicino capace ancora di influenzare il presente, per cercare di capire quello che non si è riusciti a comprendere fino in fondo o quello che si aveva bisogno di fermentare un po’ prima di essere inteso.
Tra tutti gli avvenimenti del 2017 uno dei più ingarbugliati e difficili da approcciare riguarda l’ormai celebre polverone scoppiato nel mese di ottobre nei confronti del produttore statunitense Harvey Weinstein, che mette in luce il mondo di molestie e aggressioni sessuali dello star system americano con la conseguente formazione del movimento #metoo. L’indagine, che ha radici più antiche del nostro 2017, trova rapidamente spazio sulle testate giornalistiche di tutto il mondo. Il livello di panico tra gli addetti al lavoro è alle stelle (in poco tempo il mostro non sarà solo Weinstein, usciranno altri nomi), l’opinione pubblica è divisa, un po’ dubbiosa, un po’ perplessa: una cosa è certa, i buoi sono scappati.
E qui accade l’incredibile, ma non perché si scoperchiano le dinamiche mostruose del sistema maschilista hollywoodiano, ma perché una serie di drammatiche testimonianze dà il via ad un movimento mondiale di denuncia nei confronti della violenza e dell’abuso di potere. È tutto spontaneo ed estremamente rapido, impossibile da contenere, alimentato dalla facilità di espressione e condivisione dei nuovi social. L’attrice americana Alyssa Milano incoraggia le donne a raccontare il proprio vissuto lanciando l’hashtag #metoo su Twitter ricevendo più di 65mila risposte. In pochissimi giorni lo slogan si adatta ad esigenze linguistiche (in Francia è #moiaussi o #balancetonpork, in Italia #ancheio) e diviene un contenitore per raccogliere le storie di violenza di cui le donne di tutto il mondo sono ancora vittime, soprattutto sul posto di lavoro.
Un mese dopo lo scoppio del movimento #metoo, è il 6 dicembre 2017, le “Silence Breakers” – così vengono chiamate le donne che hanno letteralmente “rotto il silenzio” – sono premiate dal Time con il celebre riconoscimento “Person of the Year”, persona dell’anno (nel 2016 era Donald Trump, quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America), finendo sulla copertina del giornale e facendo rapidamente – di nuovo – il giro del mondo. Tra le cinque “Silence Breakers” che compaiono sulla copertina del settimanale vi sono l’attrice Ashley Judd, tra le prime star a puntare il dito contro il produttore statunitense Weinstein, la cantante Taylor Swift, che lo scorso agosto ha vinto il primo round della causa per molestie sessuali in corso a Denver contro il dj David Mueller, (accusato di averle palpato il sedere dopo un suo concerto nel 2013), Adama Iwu, la lobbysta che ha lanciato il sito We said enough per denunciare le molestie nel mondo del lavoro e della politica, Isabel Pascual (il nome è di fantasia), la quarantaduenne raccoglitrice di fragole del Messico che ha raccontato pubblicamente le minacce ricevute per aver denunciato gli abusi e Susan Fowler, l’ex ingegnere informatico di Uber la cui denuncia di molestie sessuali lo scorso giugno ha portato al licenziamento del Ceo e di altri venti dipendenti.
Ma con il movimento #metoo scoperchiare il vaso di Pandora ha un impatto molto forte sull’opinione pubblica: qualcuno urla ad una caccia alle streghe esagerata, altri parlano di giustizia, altri ancora giocano la carta sempre valida (ma non per questo meno squallida) del “se lo è andata a cercare”. Anche il nostro paese è direttamente coinvolto nel dibattito, soprattutto dopo la testimonianza diretta dell’attrice Asia Argento, che il 5 ottobre 2017 dichiara sul New York Times di essere una delle vittime di Weinstein. Le polemiche, le accuse dei giornalisti, i commenti volgari, misogini e maschilisti (impossibile non citare in questa sede nomi come Renato Farina, Vittorio Feltri e Vittorio Sgarbi, durissimi nei confronti dell’Argento e delle numerose vittime del produttore) mettono in luce il lato più brutto e deforme della nostra società occidentale, ma purtroppo ci dicono – con toni e modi che forse non vorremmo sentire – una grande verità: quanto è difficile ancora oggi denunciare una violenza, un sopruso, un’ingiustizia. E qui il terreno si amplia: non si parla più solo dei grandi scandali di Hollywood, ma delle quotidiane realtà di prepotenza e arroganza che la fanno da padrone in molti ambienti lavorativi. Non si tratta solamente di sesso, le molestie sul lavoro sono una questione di potere e di controllo. È un gioco di gerarchie e di diseguaglianze spesso sottovalutato dalle vittime stesse, spesso accettato come normalità del sistema, difficile da denunciare e insostenibile nel momento in cui si resta da soli.
Le polemiche legate al movimento #metoo e ai tempi di denuncia e le accuse rivolte nei confronti di chi si è approfittato della situazione si sprecano e ognuno di noi potrà farsi la sua personale opinione sulla faccenda, non abbiamo né il compito né l’interesse a esprimere sentenze o giudizi. Quello che resta però da questo 2017 è in potenza l’inizio di qualcosa di forte. Concretamente abbiamo assistito, con la nascita del movimento #metoo ad una mobilitazione globale, una campagna spontanea antiviolenza e ad una presa di coscienza del fatto che chiudere gli occhi davanti ad un sistema di potere consolidato basato sul ricatto, il maschilismo e la violenza (fisica e/o psicologica) inizia a diventare un problema. La grande sfida che affronteremo negli anni a seguire sarà come approcciarci a questo problema. E in questa fase non potranno essere solo le opinioni personali o le inchieste giornalistiche a darci delle soluzioni, ma ci sarà bisogno di una visione politica, economica e sociale ben definita.
Consigli di lettura per un anno che sta finendo: è uscito l’8 dicembre per l’Espresso il reportage di Wlodek Goldkorn “La Polonia verrà salvata dalle donne”, uno degli scritti più interessanti di questo 2017, un racconto dettagliato di un fenomeno culturale e politico che vale la pena iniziare a conoscere meglio. Perché guardare all’anno appena trascorso, alle sue storture interne e alle sue contraddizioni ci obbliga a immaginare un futuro migliore. Un futuro non troppo lontano, speriamo. Buon 2018.
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Agnese Zappalà
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