di Margherita Vitali
È il 2 agosto 1980, sono passate le dieci di mattina e a Bologna fa molto caldo. Gente che parte, gente che torna. La stazione è affollatissima, ci sono persone in coda al chiosco dei gelati, altre ammassate sui marciapiedi e le sale d’aspetto brulicano di pendolari. Perché Bologna è una stazione centrale, da lì partono e si smistano viaggiatori diretti a nord e sud. Tutti, quindi, seduti aspettano, guardando l’orologio.
Se andiamo oggi alla stazione di Bologna, vicino al piazzale ovest, quello stesso orologio lo possiamo ancora osservare, eppure è fermo, le sue lancette sono immobili e segnano sempre le 10.25. Perché il 2 agosto 1980 a quell’ora qualcosa è successo, qualcosa che ha cambiato il volto di quella stazione, di quella città e dell’intero paese: è scoppiata una bomba.
I ventitré chili di esplosivo erano all’interno di una valigetta abbandonata sul tavolo adiacente al muro portante della struttura. Da un secondo all’altro è il caos: il complesso ovest della stazione crolla su se stesso, inghiottendo le centinaia di persone all’interno. Le due sale d’attesa, il ristorante e gli uffici ai piani superiori si trasformano in un attimo in prigioni di calcinacci. L’onda d’urto scaraventa in aria detriti di qualunque genere investendo un treno, pieno di passeggeri. In pochi attimi la folla festosa, annoiata, accaldata si trasforma in corpi ardenti. Bilancio finale: 85 morti e circa 200 feriti.
«In quell’esatto istante la sala d’aspetto crollò, anche la tettoia di lamiera e tutto quel fumo andò verso l’alto. Il vuoto d’aria mi schiacciò contro la vettura, poi a terra. Sulla gamba mi cadde un pezzo di ferro. Non sentii alcun dolore, in quel momento. Ci fu un silenzio irreale, di due minuti, tremendo, la polvere scese e mi coprì il volto, le mani, tutto. Da quel torpore irreale, mi svegliò un urlo violento. Era qualcuno che si trovava sugli altri binari, vide la scena e urlò, così forte, così chiaro. Mi girai e vidi una persona che veniva verso di me. Mentre correva, gli cadde un masso sulla schiena. Rimase a terra a pochi centimetri. Aveva gli occhi sbarrati, ma forse voleva comunicare qualcosa, un segnale di aiuto. Da solo, cercai di togliere il masso dal suo corpo, ma era troppo pesante. Uscii dalla stazione e chiamai delle persone. Tornammo sul primo binario. Riuscimmo a spostare il blocco».
Roberto Castaldo, superstite
Bologna non scappa, non ha paura, non attende. L’intervento dei soccorsi è tempestivo, ma anche senza il loro aiuto i presenti, impauriti e sanguinanti, si rialzano velocemente. Un’enorme folla solidale di gente ferita e passanti sconvolti comincia a scavare tra le macerie alla ricerca dei superstiti. Ci sono cadaveri ovunque, un fortissimo odore di carne bruciata, corpi rinvenuti e salvati che sfilano in silenzio su barelle di fortuna ricavate da pezzi morti di quella stessa stazione. Autobus, taxi, vetture private si improvvisano ambulanze o, all’occorrenza, prime camere mortuarie.
Alle 17.30 il Presidente della Repubblica Sandro Pertini è già lì. Corre all’Ospedale Maggiore dove sono state allestite numerose camere mortuarie e nel quale si trovano già moltissimi feriti. Di ritorno rilascia una dichiarazione alla stampa, nel pianto: «Non posso esprimere lo stato d’animo mio, voi lo immaginate. Ho appena visto dei bambini in una camera mortuaria. Una cosa straziante».
Ma quello che è avvenuto a Bologna è molto più che straziante: è strage.
«È scoppiata una caldaia, è stato un incidente. Non mettete in testa alla gente che si tratti di un attentato». Sono queste le prime voci, ma non ci crede nessuno, le caldaie sono intatte. Bastano infatti pochi giorni e la procura di Bologna apre le indagini. Si intuisce subito che l’attentato sia stato studiato per colpire il maggior numero di persone possibile: una bomba potentissima, esattamente sotto il muro portante di una stanza gremita di persone, in uno dei giorni più affollati dell’anno. Fin da subito le indagini si indirizzano su una fazione politica ben definita, nella speranza non tanto di trovare i mandanti quanto gli esecutori. Un rapporto della Digos punta il dito contro un’organizzazione incline allo stragismo e colpevole di significativi reati: una frangia dell’estrema destra terrorista. Dei pentiti dal carcere parlano, spuntano indizi e poi, non meno importante, c’è il fascicolo del magistrato Mario Amato che a Roma poco tempo prima sta conducendo le indagini sul terrorismo neofascista, prima di essere freddato nel Giugno di quello stesso anno.
Il 28 Agosto la procura di Bologna emette ventotto mandati (che presto diventeranno cinquanta) di cattura a carico di numerosi estremisti di destra, con le accuse di associazione sovversiva, eversione dell’ordine democratico e banda armata. Ma è proprio a questo punto che le cose si complicano. Cominciano i depistaggi per rallentare e confondere le indagini provenienti da varie voci, una tra tutte a spiccare è quella del Sismi, il Servizio di Informazioni e Sicurezza Militare Italiano.
Poi accade un altro fatto: il 13 gennaio 1981, in uno scompartimento su un treno, viene ritrovata una valigetta sospetta e al suo interno sono presenti un mitra (che solo successivamente si scoprirà appartenere alla Banda della Magliana) e otto lattine di esplosivo, identico a quello della strage. I carabinieri non andarono per caso su quel treno, vennero spinti da un rapporto consegnato da cariche dello Stato e del Sismi, denominato «terrore sui treni» che informava che di li a poco sarebbero scoppiati numerosi attentati all’interno di vagoni ferroviari, organizzati da neofascisti internazionali.
Ma nel 1984 emerge che quell’esplosivo venne messo da un sottufficiale dell’arma stesso, ingaggiato da quelle stesse persone che avevano consegnato il rapporto. Depistaggio, ancora. Depistaggio atto da esponenti di spicco della loggia massonica P2 vicini al fin troppo rinomato Licio Gelli. Proprio lui, e tutti coloro che avevano preso parte a questo gioco di ombre, nel 1985 vengono rinviati a giudizio per associazione sovversiva. Secondo il magistrato questi esponenti della P2 avevano l’intenzione di sovvertire l’ordine democratico commissionando attentati a gruppi neofascisti come il Nar: Nuclei Armati Rivoluzionari.
Proprio la testa del Nar sarebbe stata fisicamente presente alla stazione quel giorno: Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, già noti per circa otto omicidi, tra questi figura anche la responsabilità morale per il delitto contro il giudice Amato.
A incriminarli è Massimiliano Sparti, noto collaboratore dei Nar, che sostiene di aver visto Mambro e Fioravanti il 4 agosto. «Hai visto che botto?» dice Fioravanti riferendosi a Bologna, «eravamo lì travestiti da turisti, ma qualcuno potrebbe aver riconosciuto Francesca. Ci servono dei documenti falsi».
Loro negano, confessano i plurimi omicidi ma la strage no.
Poi di nuovo un colpo di scena: nel 1990 la corte d’assise d’appello annulla tutte le condanne della strage, anche quella a Licio Gelli, Mambro e Fioravanti. Il Movimento Sociale Italiano chiede che dalla lapide alla stazione di Bologna venga tolta la scritta «strage fascista»; Francesco Cossiga – Presidente del Consiglio all’epoca della strage – si scusa personalmente con il partito. Ma nel 1992 la Cassazione ribalta ogni cosa: «In alcune parti i giudici hanno sostenuto tesi inverosimili che neppure la difesa aveva sostenuto».
Nelle udienze pubbliche del 22 e 23 novembre 1995 la Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite Penali ha definitivamente condannato all’ergastolo, per la strage del 2 agosto 1980 alla Stazione di Bologna, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Con loro venne anche condannato a 30 anni di reclusione il militante Luigi Ciavardini, all’epoca dei fatti diciottenne. Inoltre sono stati condannati, pure definitivamente, per il depistaggio delle indagini, i massoni Licio Gelli, Francesco Pazienza, il generale Pietro Musumeci e il colonnello Giuseppe Belmonte, questi ultimi due, ufficiali del servizio segreto militare.
Ad oggi, a Ciavardini è concessa la semilibertà (dal 2009), mentre Francesca Mambro e Valerio Fioravanti sono incredibilmente liberi.
Le forze neofasciste come manovalanza operativa degli attentati, la complicità dello Stato, la violenza che spara nel mucchio e che non colpisce oppositori politici o bersagli, ma gente comune: questi sono stati gli ingredienti della strategia della tensione condotta nel corso degli anni Settanta. Ma adesso perché? A quale scopo?
Non c’è giustizia per quelle 85 persone e per tutti noi. Per chi c’era, per chi ha seguito le vicende al telegiornale e per chi ancora non era al mondo. Tutti noi dovremmo sentire sulle nostre spalle il peso di quei corpi e di quelle famiglie che non sapranno mai. Forse gli storici del futuro saranno in possesso dei documenti che diranno perché proprio lo Stato, che dovrebbe essere l’espressione del cittadino, ha depistato le indagini. Forse sapranno chi e cosa ha voluto tutto questo. Ma a noi adesso non resta che ricordare e parlarne, per far sapere a tutti che il 2 Agosto 1980 l’Italia ha perso 85 persone in una strage fascista, in una strage di Stato.
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