Vittorio Arrigoni è stato un uomo, un combattente, un figlio, un pacifista, una speranza, un simbolo, un amico, un amante, ma, soprattutto, è stato un sognatore. Quest’ultima categoria è forse quella più particolare e meno rigida di tutte le altre, perché il sogno è la dimensione più intima e propria in cui, ognuno di noi, ritrova le definizioni più prossime a se stesso e altre ne crea cercando di trovare la propria posizione nel mondo, attuando, passo dopo passo, a piccoli tratti alla volta, quella speranza che caratterizza ogni sogno, ogni nostra pulsione e aspirazione di traduzione dei nostri desideri.
Il sogno è connaturato anche alla speranza. Speranza è il desiderio di trovare, vedere, compiere un cambiamento – non per forza stravolgente – che ci possa far dire «il mondo così com’è, io lo posso chiamare casa». Il sogno più vero, la speranza più grande di Vittorio era quella di un mondo libero, senza bandiere a sostenere l’uguaglianza, in quanto nella realizzazione della libertà come diritto ad esistere da nascituri e appartenenti a questa terra, la bandiera sarebbe solo un colore con cui rapportarsi e non un discrimine dietro cui nascondersi o difendersi; infatti Vik diceva di essere nato sotto la bandiera della libertà.
La sua pratica quotidiana lo ha visto impegnato in questo gravoso compito, nella costruzione, mattone dopo mattone, di un esempio di civiltà, atta a mostrare che non c’è popolo che ha più diritti su di un altro, o non vi è popolo eletto, ma che tutti facciamo parte della specie umana e che come tali dobbiamo prenderci cura l’uno dell’altro e secondariamente, in ordine logico e non di importanza etico-morale, della terra, perché, appunto, vi apparteniamo e da essa noi ricaviamo nutrimento e quanto di necessario alla vita: «Io non credo nei confini, nelle barriere, nelle bandiere. Credo che apparteniamo tutti, indipendentemente dalle latitudini e dalle longitudini, alla stessa famiglia, che è la famiglia umana». La vita è un diritto, una volta realizzata e tutti dovremmo essere in grado di mantenere inviolata questa grande possibilità.
Vittorio Arrigoni non è andato a combattere con un fucile in mano, ostentando potere e violenza, ma portando con sé acqua, pane e coperte, perché una vita non è degna di questo nome senza i nutrimenti per il corpo e la protezione della nostra salute.
È andato a difendere un qualcosa che appartiene a tutti noi ancestralmente, un qualcosa che noi diamo per scontato che, però, non tutti hanno: la casa. Il diritto ad avere una casa, una tana è un qualcosa che, se negato, toglie la possibilità ad un uomo di definirsi tale. Come animali ne sentiamo il bisogno, è il luogo in cui ci sentiamo al sicuro, in cui cresciamo e attraverso cui conosciamo il mondo, gli altri e in cui invitiamo chi ci è amico, chi non ci è ostile, è il dove noi diventiamo, pian piano, uomini e donne che insieme creano un’altra casa proseguendo il destino dell’animale che siamo. Ogni cultura ha la sua forma “casa”, la storia ci parla di mille e più tipologie di abitazione, perché nell’evoluzione della nostra storia la cosa che più è mutata con noi, è proprio la casa. Ogni epoca e cultura ha e ha avuto la propria, l’ha scelta, ubicata e costruita, sistemata, addobbata e vissuta a secondo della propria necessità e volontà. Distruggere e soppiantare la casa altrui imponendo la propria, la propria dimensione e la propria cultura non è abitare la terra, ma dominare e sottomettere l’alterità.
Questo sogno e questa speranza necessitano di un ulteriore lemma in grado di definire la figura di Vik e della sua vita, questo è “utopia”. Non a caso, Ernst Bloch, scriveva che il principio della speranza è ciò che fa muovere la civiltà verso il suo desiderio di compimento, cioè verso l’utopia.
Utopia non è solamente u-topia, cioè luogo non esistente o non situabile, ma è quel termine-speranza che incarna il valore più alto e cioè quello della costruzione sulla terra della casa dell’uomo, dove gli abitanti possano soggiornare in pace e godendo della libertà, in armonia con ciò che li circonda. La vita si fa tale attraverso la realizzazione di questo processo-casa che ognuno di noi ha nel cuore e a cui anela. Prestando ascolto a questo pensiero del cuore, tanto caro a Henri Corbin e a James Hillman, tutti noi possiamo contemplare e concepire la grandezza di questo sogno, cioè il pensare, il costruire e l’abitare la speranza della razza umana e cioè quella di una terra, o meglio una parte di essa, in cui riconoscersi, riconoscere i propri valori e verità, attraverso cui crescere e diventare ciò che siamo, cioè un elemento materno, la culla di tutti noi che ci protegge nella sua molteplice forma: la casa.
Da questo possiamo capire lo stretto legame tra i termini “casa”, “utopia”, “speranza” e “sogno”, soprattutto per un uomo come Vittorio Arrigoni, che amava firmarsi, oltre che con il nomignolo “Vik”, con la parola utopia. Non c’era bandiera dietro la parola utopia, se non quella della libertà: «Io non credo alla guerra, non voglio essere seppellito sotto nessuna bandiera. Semmai vorrei essere ricordato per i miei sogni. Dovessi un giorno morire – fra cent’anni – vorrei che sulla mia lapide fosse scritto quello che diceva Nelson Mandela: “Un vincitore è un sognatore che non ha mai smesso di sognare”. Vittorio Arrigoni: un vincitore». È in questa speranza che egli ha creduto e per cui si è battuto andando contro tutti, perché i grandi rivoluzionari hanno nel cuore un sogno e quello di Vittorio era di poter restituire la casa a chi, per sottrazione, ne è rimasto sprovvisto. La cultura deve aprirci, deve permetterci di vedere il mondo e capirlo, capire le necessità dell’altro, perché «conoscere è il primo passo verso una soluzione», verso la soluzione dei soprusi e dei problemi. La cultura deve educarci ad essere uomini e non macchine dominatrici. Solamente attraverso un lavoro duro e continuo, atto a farci diventare uomini potremo superare questi confini, abbatterli a favore di grande frontiere, che non funzionino da muri di isolamento, ma da soglie in cui riconoscere ciò che siamo e ciò che l’altro-da-noi è; invece che lo scontro tra le culture, proporre un confronto tra le culture, perché la parola cultura, al singolare, non è né viva ne pura, ma è soltanto una banalizzazione. L’uomo nasce molteplice e così la sua determinazione più evidente, la cultura appunto: «continueremo a fare delle nostre vite poesie, fino a quando la libertà non verrà declamata sopra le catene spezzate di tutti i popoli oppressi».
Ed è in favore di tutto questo che Vittorio Arrigoni ha combattuto ed è per questo che è stato ucciso. Ricordiamo chi è stato e chi è, per non dimenticare ciò che siamo e potremmo essere. Non solo dalle vittorie compiute si può imparare – come ricorda Wu Ming 2 -, la forza dei sogni sta nel loro maturare, non nella loro risoluzione. “Restiamo Umani”.
«Restiamo umani. Stay Human. Se lo traduci in inglese, così, senza pensarci troppo, il motto di Vittorio Arrigoni può ricordarti un altro slogan, più famoso, pronunciato da un tizio che vendeva smartofoni e calcolatori, e che invitava la gente ad essere pazza, ad essere affamata».
(Wu Ming Contingen, Bioscop, Woodworm Label,2014)
In ricordo di Vittorio Vik Utopia Arrigoni
(Besana in Brianza, 4 febbraio 1975 – Gaza, 15 aprile 2011)
[…] essa dallo stesso “filo narrativo” è sicuramente I nostri discorsi, dove viene citato Vittorio Arrigoni, attivista famoso per la frase «Restiamo umani» morto nell’Aprile 2011 a Gaza. Il brano è […]
[…] essa dallo stesso “filo narrativo” è sicuramente I nostri discorsi, dove viene citato Vittorio Arrigoni, attivista famoso per la frase «Restiamo umani» morto nell’Aprile 2011 a Gaza. Il brano è […]