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Niccolò Ammaniti
si racconta:
«Sono nato dark»

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21 minuti di lettura

Autoritratto ironico e sincero di uno dei più amati scrittori italiani dell’ultima generazione

Davanti a un pubblico attento, che sfidando la pioggia di questo giugno autunnale affolla gli spalti del teatro Romano di Verona, Niccolò Ammaniti si racconta, mettendo a nudo se stesso ed il suo percorso di scrittore di successo. Quasi due ore di intervista-spettacolo, condotta da Gaia Guarienti, nell’ambito del Festival della Bellezza, rassegna organizzata dall’Associazione culturale IDEM-percorsi di relazione, che ha portato in questi giorni a Verona alcuni tra i più noti uomini di cultura del panorama nazionale, tra scrittori, filosofi, storici dell’arte, attori, giornalisti con un confortante successo da parte di un pubblico “affamato” di parole e pensieri in libertà.

Ecco come lo scrittore romano, autore di grandi successi editoriali, da Ti prendo e ti porto via (1999) a Io non ho paura (2001), da Come Dio comanda (2006) al recente Anna (2015), ha parlato dei propri esordi e delle principali tematiche della sua prosa.

Niccolò Ammaniti al Teatro Romano per il Festival della bellezza - www.festivalbellezza.it
Niccolò Ammaniti al Teatro Romano per il Festival della bellezza – www.festivalbellezza.i

Da biologo mancato a scrittore di successo

Ho scelto l’università come succede a tanti, un po’ per caso. Finito il liceo avevo le idee ancora molto confuse. Mio padre voleva che mi iscrivessi a Economia e Commercio, perché a Roma più o meno funzionava così, quando uno non aveva le idee chiare o faceva Legge o Economia. Mio padre era un bravo padre, molto esigente, come mio nonno lo era stato con lui. Lui a 23 anni si era laureato, a 24 si era specializzato, a 25 aveva iniziato a lavorare, a 26 si era sposato, a 27 aveva fatto i figli… Ma che bisogno c’è di correre in questo modo! Io amavo coltivare le mie passioni, la lettura, la musica, lavorare la creta anche se li ritenevo degli hobby, cose poco importanti. Solo il lavoro era una cosa seria, non ti dovevi divertire, non ti dovevi esprimere… Mi sembrava che “il bello” non dovesse avere a che fare con la mia vita, e quindi lo tenevo da parte.

Nell’estate tra la fine del liceo e l’inizio dell’università visitando un museo di zoologia realizzai che gli animali erano ciò che mi piaceva, pensavo che attraverso di loro avrei capito come girava il mondo.

Così mi iscrissi a Biologia. Gli studi procedevano con esiti alterni. Il punto di non ritorno fu la bocciatura all’esame di Chimica Organica, a cui mio padre teneva molto. Non ebbi il coraggio di deluderlo e quando a casa mi chiese come era andata, raccontai una bugia: mi diedi un bel 30, però con l’idea di ridare l’esame alla successiva sessione. Ritentai, ma allo scritto mi bocciarono nuovamente. Tornai a casa e quella volta dissi di aver preso 28. A quel punto, la mia carriera universitaria partì alla grande, procedevo velocissimo! Avevo imboccato sostanzialmente la grande ossessione della mia vita: la doppia identità, una per gli altri e una nascosta, che era la mia.

Sognavo un’altra vita, e nonostante tutto coltivavo un forte senso di colpa, come se avessi ucciso qualcuno. La stessa situazione che ho riversato nel libro Io e te, dove c’è un ragazzino i cui genitori si aspettano che lui socializzi, che faccia amicizia, che abbia delle fidanzate, e lui, pur di farli contenti mente, dice di andare in settimana bianca ma in realtà si nasconde dentro la cantina sotto casa. È un po’ quello che è successo a me. Ero tormentato da un proverbio: «i nodi vengono sempre al pettine». Ma per me l’importante era che i capelli crescessero talmente veloci in modo che i nodi non potessero mai venire al pettine.

Giunto il momento di preparare la tesi mio padre, che esercitava la professione di psicologo, si offrì di ospitarmi nel suo studio per farmi lavorare in tranquillità. Per ingannare le ore in quei lunghi pomeriggi oziosi iniziai a scrivere un racconto (Branchie, 1994 n.d.r.): parlava di uno che stava male, che aveva un cancro terminale e pochi mesi di vita, e che, disperato, corteggiava una donna che era solito frequentare di notte a Roma, ma che scopriva essere la morte. Una storia veramente orrenda, tristissima, nel quale avevo però riversato tutte le mie passioni, il senso dell’assurdo, la musica, l’India, i pesci …

Il caso volle che un mio vecchio amico che lavorava nella casa editrice Ediesse fosse alla disperata ricerca di romanzi di autori esordienti per una nuova collana. Gli diedi la prima parte del mio libro. Pochi giorni dopo mi chiamò dicendomi che se lo avessi finito, l’avrebbe pubblicato. Gli era piaciuto veramente.

Fu a quel punto che i famosi nodi vennero al pettine e mio padre scoprì la verità. Speravo di rabbonirlo con la notizia della pubblicazione del mio primo romanzo, ma lui mi mostrò la porta. Fu così che uscii definitivamente da casa, la vita mi si aprì proprio nel momento in cui rivelai la verità.

Una scena dal film Io e te (2012) di Bernardo Bertolucci
Una scena dal film Io e te (2012) di Bernardo Bertolucci

La passione per l’horror

Sono nato dark. Fin da ragazzino ho sempre cercato il macabro, mi piacevano le ossa, gli animali morti, i cimiteri. Inoltre, mi chiedevo perché gli UFO atterrassero sempre in America e mai a Villa Ada. Perché gli zombie invadessero solo i loro supermercati e alla Despar mai nulla. I serial killer made in USA facevano cose stranissime, mentre dai noi erano sempre dei disgraziati che ammazzavano la loro famiglia. Mi dispiaceva che quella mitologia non ci appartenesse, che venisse attribuita a una letteratura “altra”, che venisse considerata un’americanata. Certo, se mi metti gli zombie americani in Italia non funzionano, devono essere loro stessi italiani!

Ai Parioli, dove vivevo, c’erano veramente dei personaggi molto inquietanti, tipo picchiatori fascisti tremendi… Potevano essere sicuramente simili ai cattivi del Texas. Allora pensai: perché non fare una sinergia?

Il tema ricorrente del corpo

In generale, ciò che mi ha sempre interessato sono le metamorfosi, come quella di cui scrive Franz Kafka… Mi ha sempre attratto tutto ciò che riguarda l’evoluzione del feto per esempio. È incredibile come l’uovo fecondato diventi una morula, poi una blastula, e ad un certo punto incominci ad assomigliare a un pesciolino con tanto di branchie, poi si piega, spunta una piccola testa, sembra quasi un anfibio, cominciano a comparire le prime vertebre e alla fine diventa, appunto, un uomo in embrione. In qualche modo l’evoluzione del feto sembra ripercorrere l’evoluzione della vita sulla Terra. Questa cosa mi ha sempre colpito molto! Questa continua trasformazione che ci fa crescere, che ogni giorno ci porta ad essere qualcosa di diverso, e che coinvolge non solo il corpo ma anche la psiche soprattutto nell’adolescenza. Siamo proprio come un girino che si trova ancora ad avere la coda, le branchie, ma che, allo stesso tempo, inizia ad avere i polmoni, le zampe…

Io non ho paura

Io non ho paura è stato un libro strano. Quando firmai il contratto con la Mondadori ebbi una crisi pazzesca, non mi sentivo pronto. Alla fine riuscii a scrivere con grande fatica Ti prendo e ti porto via, che andò bene. Ma ero stanco, volevo assolutamente provare qualcosa di diverso, volevo scrivere in prima persona nonostante non mi fosse mai piaciuto che si sentisse troppo la voce dello scrittore, forse per una forma di pudore.

Viaggiando in solitario per la campagna pugliese mi ritrovai in una zona di solo grano, un specie di mare di spighe che salivano in grandi onde, con pochissime case e alberi. Erano luoghi abbandonati, lì vicino tutti erano finiti allo stabilimento della FIAT a Melfi. Ricordavo che al sud per il caldo i contadini lavoravano la notte e di giorno stavano chiusi in casa. Provai ad immaginare i bambini: erano i più liberi del mondo. Ma che cosa potevano fare dato che anche giocare con quel caldo doveva essere stancante? Da questa sensazione si è sviluppata la trama del libro, ambientato nel ’78. Cosa succedeva in Italia in quegli anni? Pensai ai rapimenti, ai tanti sequestri di figli di industriali del nord che venivano portati al sud, magari in Sardegna. Ma se il figlio del rapitore avesse scoperto un bambino della sua età? Provando ad entrare con la mia memoria di bambino nella storia ecco scatenarsi lo scontro generazionale dell’adolescenza. Prima accetti tutto ciò che fanno i tuoi genitori, ma se poi scopri che fanno qualcosa di male, sei realmente in grado di prendere delle decisioni autonome? Sei in grado di costruirti una morale che collide con quella famigliare che da bambino hai accettato come si accetta la fede per gli dei?

Quando il libro è uscito è stato un grande successo, un successo arrivato anche abbastanza presto e che mi ha tranquillizzato: allora forse una cosa la sapevo fare.

Una scena dal film Io non ho paura (2003) di Gabriele Salvatores
Una scena dal film Io non ho paura (2003) di Gabriele Salvatores

La perdita dell’innocenza

Nei miei libri c’è qualcosa che tutti abbiamo vissuto da bambini. L’adolescenza è uno strano periodo, è unico, perché ti ritrovi a cambiare il tuo modo di essere, non solo fisicamente, ma anche mentalmente. Il liceo, poi, è una strana società, dove si ritrovano a convivere bambini di 13 anni e diciottenni con la barba: sono esseri con esigenze e passioni completamente diverse. È un mondo violento, dove iniziano a contare quanti soldi hai, di chi sei figlio, se sei bello o brutto. Con l’adolescenza arriva la scoperta dello specchio, ci guardiamo e cerchiamo di capire come siamo rispetto agli altri. Per entrare in questa società gerarchizzata devi superare il lutto dell’infanzia, il luogo del gioco e della narrazione del mondo. Prima uccidi il bambino che è in te e prima ti integri nella nuova società degli adulti. L’adolescenza è quindi il periodo più interessante da raccontare, proprio perché a volte abbiamo grandi slanci di maturità, ma allo stesso tempo siamo ancora bambini. Un adolescente è proprio il miglior protagonista perché non sai mai cosa aspettarti da lui.

Padri, figli, fratelli

Nella mia vita il rapporto padre-figlio è stato molto importante, e solo ora con il mio ultimo libro Anna sono riuscito ad eliminare la figura del padre e ad evidenziare la relazione tra una ragazza e una madre. In Come Dio comanda (Premio Strega 2007, n.d.r.) ciò che mi interessava capire era quanto un’educazione sbagliata possa trasformarti. Come un padre violento, neonazista, che insegna con infinito amore tutto ciò che ci può essere di sbagliato, proprio perché è un uomo terrorizzato dalla vita, non accettato. Era questa la scommessa: raccontare una storia d’amore dove però si insegnasse l’odio. È stato un libro molto complicato e difficile.

Anche il rapporto tra fratelli è un tema ricorrente dei miei libri. Credo che l’amore fraterno sia uno dei più alti che esistano. È una relazione incredibile, perché segna la vita l’aver avuto gli stessi genitori, le stesse origini, l’aver provato le stesse cose nello stesso modo. Che cosa trovava di bello mio padre in mia madre? Che cosa hanno vissuto insieme? Queste domande si possono condividere solo con un fratello. Lo stesso fratello per cui Anna, la protagonista del mio ultimo libro, diventa mamma: proprio perché la madre le dice di occuparsi di suo fratello, in quanto lui stesso è la sua carne, il suo sangue.

Una scena dal film Come Dio comanda (2008) di Gabriele Salvatores
Una scena dal film Come Dio comanda (2008) di Gabriele Salvatores

Scrittori da tana e scrittori da prateria

Io ho sempre pensato ci fossero due tipi di scrittori. Io sono scrittore da tana, più sto chiuso in un posto più sto bene. Io amo quegli scrittori che aprono una porta e raccontano tutto quello che ciò che non hanno mai vissuto. La loro frustrazione permette di realizzare grandi storie, come Fernando Pessoa. Questa capacità di evadere con la fantasia mi commuove, è la stessa capacità che evita al carcerato di uccidersi in prigione: anche nella totale cattività siamo capaci di immaginare altro.

E poi ci sono gli scrittori che vivono, e che raccontano la loro vita, che sono al centro del palcoscenico, come Ernest Hemingway quando scriveva della guerra. Ma se tu vivi, che bisogno hai di raccontare una storia? Tu in fondo devi raccontare quello che non puoi fare.

Poi ho incontrato lo scrittore italo-americano John Fante, che mi ha colpito molto in quanto riusciva a rendere mitica una vita fatta di poche cose. Figlio di immigranti italiani, aveva il sogno di fare lo scrittore, di lavorare a Hollywood e soffriva raccontando come se fosse un vero eroe di una grande storia. È lì che mi sono innamorato dei suoi libri.

Lo scrittore John Fante - www.agendalugano.ch
Lo scrittore John Fante – www.agendalugano.ch

A tutto ci si abitua…anche al successo

Beh per prima cosa, non avevo capito che fare lo scrittore implicava il dover parlare, ad esempio alla presentazione dei libri, il che mi ha provocato tremendi attacchi di panico. Ora mi ci sono abituato (come conferma la spigliatezza con la quale dialoga con il pubblico veronese, n.d.r.). Spesso ho ricevuto anche critiche terribili, da rimanere stordito e barcollante per una settimana. Sento spesso la responsabilità di dover essere all’altezza dei miei libri. Una volta mi chiamò Alberto Asor Rosa proponendomi di partecipare un incontro all’Università La Sapienza insieme a Alessandro Baricco, Balestra, e altri scrittori pazzeschi, sul tema della nuova letteratura. Non potevo dirgli di no. L’appuntamento era programmato per sei mesi dopo, mesi che passarono però molto in fretta. Tre giorni prima, quando ormai non ci pensavo più da tempo, sul giornale, in ultima pagina, notai l’annuncio dell’evento. Non ci potevo credere, non ce la potevo fare. Certamente non potevo darmi malato. Pensai allora di simulare uno schianto con la Vespa presso l’ospedale vicino all’Università, proprio all’ingresso del Pronto Soccorso. Mi schiantai deliberatamente contro il muro, distrussi la Vespa, ma purtroppo… non mi feci neanche un graffio. A quel punto, andai a piedi all’incontro, e vidi cartelloni ovunque dove campeggiavano slogan del genere «gruppo di poeti militanti». La letteratura, infatti, in quel periodo era ancora un retaggio degli anni ’70, c’erano veri e propri conflitti ideologici, che oggi non ci sono più, purtroppo. La critica al giorno d’oggi non ha più un senso, è stata relegata a poche righe di commento sulle pagine dei giornali. Oramai ci si affida solo al giudizio dei lettori, ai feedback di internet. I saggi critici sulla letteratura oggigiorno non esistono più, si preferisce di gran lunga pubblicare un’intervista.

La funzione sociale della letteratura

Io penso che il compito della letteratura sia forse il più importante in assoluto: ovvero quello di raccontare “gli ultimi”. Permette al lettore di immedesimarsi nei panni di persone lontanissime da lui, persone in cui albergano il male, la violenza, l’odio. La letteratura ci racconta molto di più di queste persone di quanto facciano psicologi, sociologi, criminologi. La letteratura ci conduce al loro dolore, al loro passato, alle loro frustrazioni, e ci fa capire che in fondo c’è comunque qualcosa che ci accomuna.

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Valentina Cognini

Nata a Verona 24 anni fa, nostalgica e ancorata alle sue radici marchigiane, si è laureata in Conservazione dei beni culturali a Venezia. Tornata a Parigi per studiare Museologia all'Ecole du Louvre, si specializza in storia e conservazione del costume a New York. Fa la pace con il mondo quando va a cavallo e quando disquisisce con il suo cane.

2 Comments

  1. […] Niccolò Ammaniti si racconta: “Sono nato dark” – Davanti a un pubblico attento, che sfidando la pioggia di questo giugno autunnale affolla gli spalti del teatro Romano di Verona, Niccolò Ammaniti si racconta, mettendo a nudo se stesso ed il suo percorso di scrittore di successo. Ecco come lo scrittore romano, autore di grandi successi editoriali ha parlato dei propri esordi e delle principali tematiche della sua prosa. Leggi tutto […]

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