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Mozart e Da Ponte, drammaturgia della sessualità

Fra le più celebri collaborazioni fra compositori e librettisti non si può non parlare della coppia Mozart e Da Ponte, trattano il tema della sessualità e di altri problemi dell'uomo.

21 minuti di lettura

La storia dell’opera, specialmente dell’opera italiana, è costellata da celebri collaborazioni fra compositori e librettisti, alcune di esse diventate leggendarie: come non citare, per esempio, la coppia Verdi-Boito, che sì, produsse solamente due opere (e un rifacimento, quello del Simon Boccanegra), ma queste si chiamano Otello e Falstaff. Verdi, poi, ebbe spesso al proprio fianco valentissimi poeti del teatro musicale, su tutti Salvatore Cammarano e specialmente Francesco Maria Piave, ma anche Temistocle Solera, autore del notevole testo di Nabucco. Altrettanto se non ancor più valido fu l’aiuto che Felice Romani apportò a Vincenzo Bellini. Romani era il librettista più famoso e richiesto d’Europa (quindi del mondo), Bellini l’astro nascente del melodramma italiano: il loro sodalizio produsse una decina di opere, tra cui La sonnambula e Norma, interrompendosi, causa screzi personali, solo con I Puritani. Ma I Puritani furono purtroppo l’ultima opera di Bellini, la cui morte sopraggiunse improvvisa e prematura. Sulla lapide del Maestro, nel Duomo della natìa Catania, sono impressi i versi dell’amico e collaboratore Romani, fra i più belli dell’800 italiano: “Ah non  credea mirarti sì presto estinto, o fiore”. Spostandoci alla fine del secolo è invece d’obbligo citare il terzetto PucciniIllicaGiacosa, in cui il primo naturalmente musicava, il secondo stendeva una sorta di bozza in prosa del testo, delegando poi al terzo la versificazione. Così nacquero le tre più famose opere del Maestro lucchese: La Bohème, Tosca, Madama Butterfly. Musicalmente si tratta di capolavori, è innegabile, ma i libretti non sono esenti da pecche, talora anche gravi, come nel caso della Butterfly, dove una certa dose di leziosità rischia di diventare fastidiosa. Da riconoscere comunque il merito che si tratta, specialmente Tosca, di macchine teatrali efficacissime. In ogni caso, dopo la morte di Giacosa, il trio non riuscì a trasformarsi in coppia, e Puccini scelse altri collaboratori. Non rimase sicuramente senza lavoro, Illica, giacché egli rappresentò, tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, quello che fu Romani un secolo scarso prima: scrisse per Catalani, Franchetti, Giordano, soprattutto Mascagni, con l’Iris a metà fra impressionismo liberty e protoespressionismo, e l’Isabeau, fiaba rovente dai toni simbolisti alla D’Annunzio. E, visto che si parla di Mascagni e si è citato D’Annunzio, è bene ricordare la Parisina che i due partorirono: testo e musica di dimensioni mastodontiche, difficoltà d’esecuzione ai limiti dell’impossibile, ma qualità a livelli elevati. Più o meno contemporaneamente, in Germania uno degli scrittori più importanti del periodo faceva amicizia con uno dei musicisti più importanti: si trattava di Hugo von Hoffmanstal e Richard Strauss. Il loro rapporto fu assai prolifico e diede frutti di notevole eterogeneità: si va dall’infuriata Elektra all’estatico e austriaco Cavaliere della rosa, dai moderni turgori della Donna senz’ombra alla leggerezza metateatrale di Arianna a Nasso. Arabella è l’ultima figlia di questo matrimonio miracoloso: pochi giorni dopo aver ultimato il libretto, il cuore di Hoffmanstal fu stroncato, a soli cinquatacinque anni. Il grande scrittore era sconvolto dal dolore per l’improvvisa morte del figlio.

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Il discorso sulle coppie eccellenti potrebbe andare avanti ancora a lungo, ed è doloroso citare così di sfuggita, esclusivamente per motivi di spazio, binomi leggendari come Mayerbeer-Scribe, campioni del Grand Opera francese del primo ottocento, o Gluck-Calzabigi, riformatori sommi del genere melodrammatico.

Ma c’è una coppia che, più di tutte, è riuscita a fondere in una sintesi perfetta la qualità dell’ispirazione musicale e di quella letteraria, arricchendo il teatro musicale di una drammaturgia personale dalla profondità incalcolabile. Parlo di Mozart e del poeta Da Ponte, fondatori di un nuovo teatro operistico che rompe con la tradizione precedente, cogliendo con trasporto gioioso il fiore dell’ambiguità e dell’inquietudine. Teatro non moderno, ma perché ascrivibile solo alla più elevata categoria dell’immortalità. Teatro non catalogabile all’interno di un genere specifico, ma perché universale. Nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte sono molto più che tre capolavori, sono tre saggi su diversi tipi di sessualità, tutti guasti, al cui interno, come nelle scatole cinesi, sono discussi infiniti altri argomenti quali il perdono, la dannazione, il cinismo di certe speculazioni filosofiche. Gli argomenti capitali dell’umanità.

Nella trilogia Mozart-Da Ponte sono contenute tutte le filosofie, tutte le letterature possibili ma, su tutto, trionfa il “mal di sesso”, l’ossessione per la carne che, se osservata senza superficialità, rivela una tinta malinconica senza pari, un pessimismo che, laddove nelle Nozze trova una via di scampo nel finale assolutorio (“Contessa, perdono”), nelle opere successive si porta sempre più verso un vicolo cieco. Se, infatti, nel finale del Don Giovanni, il libertino di Siviglia viene sì dannato ma assurge all’eternità che il suo carisma e la sua potenza tragica gli hanno assicurato, nel mondo borghese e materiale di Così fan tutte i sentimenti sono destinati alla sconfitta totale e definitiva. Una sconfitta, si badi, meno evidente di quella di Don Giovanni e per questo più terribile, perché rode l’intimo in silenzio. Se, come hanno intuito felicemente prima Cadieu e poi Mila, le coppie corrette sono quelle dell’inganno e non quelle della realtà, allora lo scioglimento della vicenda porta con sé una inevitabile amarezza, che aleggia sottilmente nella partitura mozartiana. Si potrebbe definire, con tutte le precauzioni del caso, la trilogia Mozart-Da Ponte come una sorta di anti-Commedia: essa inizia in Paradiso, con una redenzione ancora possibile e infatti attuata, prosegue con il dongiovannesco e fisico Purgatorio, e termina in un Inferno arido, per niente dantesco, che ha però i tratti claustrofobici e fintamente sereni di un terrificante incubo. Si potrebbe obiettare facilmente: il vero inferno è in Don Giovanni, con i suoi colori demoniaci, la figura diabolica del protagonista, la conclusione ultraterrena. Tutto vero, ci mancherebbe, ma applicando al capolavoro mozartiano una lettura teleologica, e dunque leggendolo alla luce della sua conclusione, appare evidente che la condanna di Don Giovanni è stata voluta dal condannato stesso. E si noti che c’è proprio volontarietà e premeditazione, non un semplice rapporto causale. Anzi, direi che Don Giovanni ha ordito in prima persona la propria tragica fine, e dicendo ciò gli attribuisco una tensione faustiana verso la massima realizzazione, la massima affermazione di sé anche a scapito della salvezza dell’anima. Ma l’esasperata sessualità del nostro (anti)eroe è troppo legata alla materialità del mondo reale per poterne fare da sola una figura immortale. Ecco che, paradosso, l’unica maniera di diventare idealmente immortale è appunto la morte, accettata con tracotanza e  perciò immediatamente punita. Siamo di fronte a un Anticristo. Don Giovanni vuole essere castigato, ottiene ciò che chiede. Per questo non rappresenta l’antinferno mozartiano, ma l’antipurgatorio. Egli infatti giungerà alla “salvezza” (che equivale all’appagamento della sua sete di gloria) solo dopo aver scontato un processo alla sua immoralità, il quale consiste appunto nel precipitare agli inferi.

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Molto più “infernale”  la situazione di Ferrando, Dorabella, Guglielmo e Fiordiligi, i quali si trovano, tutti e quattro, a toccare con mano la fallacità dei propri rapporti personali, e nonostante la presa di coscienza inevitabile, sono portati, come burattini delle convenzioni sociali, a ristabilire un ordine che è disordine. Sono condannati all’infelicità, e questa volta senza riscatto: in realtà nessuno perdona nessuno perché tutti sono colpevoli, non c’è gloria ultraterrena perché siamo di fronte a borghesi napoletani, non libertini cavalieri spagnoli.

Definire la trilogia italiana di Mozart come una sorta di anti-Commedia operistica è un’ipotesi sicuramente affascinante, eppure inevitabilmente limitativa, perché questi tre lavori non sono simili a nessun altro di nessun ambito e perciò anche una similitudine troppo forzata con l’immensità di Dante porterebbe a costrizioni negative per l’uno e per l’altro. Però, Nozze, Don Giovanni, Così, come la Divina Commedia, ci descrivono la vita degli uomini come è nel profondo, e che è ben diversa da quella dei soliti palcoscenici settecenteschi: in esse si ride e si piange, si rimpiange, si spera, come nella vita. Come nella vita si sbaglia tantissimo. E per Mozart-Da Ponte, la causa degli errori è da rintracciare nei “bassi istinti”. Il tema, analizzato in tutte le sue sfaccettature, che domina la trilogia italiana è quello del sesso. Sesso che non sempre, si sa, vuol dire amore: anzi, più spesso si tratta di un capriccio, di una voglia momentanea. I due geniali artefici di queste trame leggendarie parlano a nostro tempo: il frutto più intimo dell’amore, quello per cui vale la pena aspettare più a lungo, ci si trova a volerlo immediatamente, lo si abbassa a soddisfacimento di pulsioni.

Non credete che sia qui a fare della morale, ma la fretta, nelle cose più delicate quale può esser la sessualità, indica, per come la penso io, l’incapacità di apprezzare pienamente il tempo: ci si illude, magari, di carpire l’attimo, e invece l’attimo lo si sta accelerando, lo si strapazza, e alla fine ci si trova vuoti perché cogliere l’uva quando è davvero acerba non serve a nulla. Mozart ha compreso che questo atteggiamento non è da condannare, ma è da comprendere, da compatire (inteso in senso etimologico): lo capisce la Contessa nelle Nozze di Figaro, la figura più positiva dell’intera trilogia, che su una musica sublime concede il perdono al marito fedifrago. Per lei l’amore, i giuramenti che dicono “Sempre” hanno ancora un valore. La Contessa è allo stesso tempo la figura più malinconica, contempla il passato felice con nostalgia, si concede un sorriso di fronte ai primi innamoramenti dell’impacciato, tenerissimo Cherubino. La Contessa è sola, ma non serba rancore, perché è equa: la solitudine, l’equità, l’umanità e l’alterità di cui è ammantata la illuminano di un’aura religiosa. Religiosità che ci pare confermata dall’aria Dove sono i bei momenti, la quale riprende l’Agnus Dei della Messa di incoronazione. Geniale identificazione, suggerita da Mozart, con il Cristo Redentore. Ella si trova quindi agli antipodi sì di Don Giovanni, ma ancor più del Don Alfonso di Così fan tutte: laddove questo cinico filosofo illuminista considera l’amore e le sue implicazioni carnali alla stregua di ogni altro fenomeno, permettendosi così di metterli in crisi per sempre in nome di una razionale ricerca scientifica (che ha come oggetto la “fede delle femmine”), la Contessa si fa sempre guidare dal cuore, e il piano per smascherare i tradimenti del marito non è un inganno, ma ha le sembianze del “tutto per tutto”. Un inganno, anzi una specie di burla, lo è quando passa per le mani del furbo Figaro, più interessato a proteggere la moglie Susanna dalle mire del Conte che a tentare di salvare un matrimonio (quello dei due conti) che sta tristemente naufragando. Innocente, ignaro di quanto accade intorno a lui, è invece il su citato Cherubino, deliziosa miniatura di adolescente alle prese con la scoperta della carnalità. La maestria di Mozart e Da Ponte nel dar vita a questo personaggio nell’età della perdita dell’innocenza è commovente: Cherubino è la speranza cui deve aggrapparsi l’umanità perché la purezza dell’amore e del sesso non vadano obliati definitivamente. La Contessa è vecchia, quello che può fare è rattoppare le falle, ma evitarle, in futuro, starà a Cherubino e a tutti i ragazzi che stanno imparando ad amare.

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Con il successivo Don Giovanni lo scenario inizia a farsi più buio: il cavaliere spoglia d’ogni significato l’atto sessuale, lo riduce alla sua ripetizione quasi meccanica. Si potrebbe dire che il sesso sta a Don Giovanni come il denaro sta al capitalista: il suo valore consiste esclusivamente nel permettergli di guadagnare ancora di più (ancora più donne, ancora più denaro), in un abisso che rende inutile qualunque possesso. Già si è detto dell’aspirazione faustiana di Don Giovanni: essa è potenziata e approfondita dal fascino magnetico che egli esercita sull’universo femminile (e non solo). Fascino che gli permette di essere al contempo perduto e strumento della perdizione altrui. Le esistenze di tutti i personaggi dipendono da quella di Don Giovanni, egli  è veramente una divinità distorta, che vive dell’attenzione e della venerazione, della repulsione altrui. Lo svilimento che il sentimento più alto subisce per opera di Giovanni è drammatico: attraverso il sesso egli non diffonde affetto, come dovrebbe essere, ma odio, odio che poi si scarica, ampliato, su di lui. Don Giovanni è dunque il dio alimentato dall’odio, non dall’amore. Ancora peggio è Don Alfonso, uomo di ragione che si diverte a sfasciare coppie, sogni, progetti. Nel deserto di Così fan tutte i personaggi completamente positivi non esistono, sono tutti biasimevoli, finti. Passano come se niente fosse sopra a episodi gravissimi di tradimento. Quel mondo è fabbricato in cartapesta, come i suoi attori. Tutto è labile, tutto è di poco conto perché non si sa su che valori fondarsi. Tutto è cinico, anche l’atteggiamento di Mozart nei confronti delle sue creature: la musica si fa ora parodia, ora scherzo, qua indugia assorta, là precipita vorticosa. Non una nota del Così fan tutte è vera, non una parola pronunciata dai personaggi. Siamo nella finzione totale, dove ci si traveste per mettere alla prova le proprie fidanzate, e ci si accorge che questa prova non la superano. Poi, messa in luce la fragilità della propria relazione, si ritorna alla routine quotidiana. Ma è una routine infelice, quella che i nostri quattro personaggi non avrebbero mai desiderato quando erano dei giovani Cherubino e credevano che l’amore fosse una fiaba.

Da Ponte, di cui si narra che durante la stesura dei libretti facesse accomodare sotto la scrivania una procace servetta, e Mozart, che per sposare Konstanze aveva sfidato il padre, e da lei venne tradito, da lei subì perfino lo smacco gigantesco di non essere immediatamente riconosciuto quale genio. Ma un genio Mozart lo era eccome, e, diciamolo, lo era pure Da Ponte. Provate, per esempio, ad ascoltare «L’ho perduta, me meschina», cantata da Barbarina, fidanzata di Cherubino, a inizio del quarto atto delle Nozze di Figaro. Il testo è riferito a una spilla, ma molti leggono fra le righe di questa toccante pagina un richiamo alla perdita della verginità. Si tratterebbe dunque, anche alla luce della musica invero malinconica, di un sorta di pianto, consumato il primo rapporto. Anzi, meglio, si tratterebbe di un rimpianto per un’età, l’infanzia, appena partita, e che non torna più. L’età in cui si ridacchiava sotto i baffi (che non c’erano) quando ci spiegavano come nascono i bambini, e in cui le gioie e i dolori del sesso erano ancora misteri inaccessibili. Misteri che la coppia Mozart-Da Ponte ci serve in maniera sublime, analizzandone la dolcezza e la violenza, la disperata attuazione, la spasmodica ricerca, in una galleria di creature profondamente umane, vere. E il palcoscenico cessa di essere un varco per diventare uno specchio.

Michele Donati

Mozart e da Ponte

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