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Intervista a Daniele Ronda: il cantautore folk si racconta a iFdI

Tutte le curiosità sulla sua musica popolare

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16 minuti di lettura

Lo stile di Ronda viene comunemente chiamato “folk”, con un termine che può benissimo essere tradotto nel nostro – con dovuti distinguo che qui non è il caso di fare – “popolare”, proprio per indicare il fatto che quei ritmi, quelle strumentazioni e quell’intenzione artistica viene dal posto in cui si vive e dal popolo che lo abita. Ronda rappresenta l’Emilia, lo stile popolare che sa di enormi distese pianeggianti, “tra la via Emilia e il West” come direbbe Guccini. Abbondante uso della fisarmonica e ben sei tracce cantate in un dialetto giusto, nel senso che rappresenta al meglio l’anima piacentina e certe atmosfere festanti, restituiscono bene l’ottima cura formale delle melodie, spesso coinvolgenti.

Motivazione Premio Lunezia 2013 a Daniele Ronda per l’album “La sirena del Po”

Nel variegato panorama della musica italiana, c’è un ragazzo piacentino, classe 1983, la cui voce oggi è riconosciuta tra quelle più significative del genere folk.

Con una carriera cominciata da giovanissimo come cantante, Daniele Ronda si è poi affermato come autore e compositore. Tra le collaborazioni più importanti, quella con Nek per diversi brani – da ricordare Almeno stavolta e Lascia che io sia, vincitrice del Festivalbar 2005Massimo Di Cataldo e Mietta.

La voglia di cantare, oltre che a scrivere per altri, lo spinge a realizzare il suo primo singolo nel 2004, Come pensi che io, brano che propone sul palco del Festivalbar lo stesso anno. Importanti le partecipazioni al Festival di Castrocaro, dove giunge terzo nel 2010, e alle selezioni per Sanremo Lab dove arriva tra i 10 finalisti.

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Una svolta rilevante avviene nel 2011 con la nascita del gruppo Folklub, formato da Sandro Allario, grande fisarmonicista di origine ligure che suona anche con Teo Teocoli, da Carlo Raviola, bassista cuneese di valore, da Luca Arosio, il nuovo batterista della provincia milanese. Una band che a tutt’oggi lo segue nei suoi progetti discografici e nelle tournée. Progetti che da questo momento vedono nel connubio tra folk e dialetto la massima espressione del talento di Daniele.

L’album di esordio, Daparte in Folk, vende oltre 5.000 copie e vince il premio Mei come “Miglior progetto musica giovanile sul dialetto”. Nel 2012 il secondo disco La sirena del Po raddoppia il precedente nelle vendite, segna l’inizio di una lunga serie di concerti, oltre 120 in tutta Italia, e gli permette di aggiudicarsi diversi premi a livello nazionale, tra cui il Lunezia 2013.

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L’ultimo progetto è La rivoluzione pubblicato a marzo 2014. Canta il brano che dà il titolo all’album al Concerto del 1° Maggio a Roma, sul cui palco tra l’altro interpreta l’inedito Inno alla diversità insieme al gruppo Taranproject. Nella stessa estate, suona allo Stadio Olimpico e al San Siro di Milano in occasione dell’apertura dei concerti di Ligabue. Inoltre, Daniele è stato tra i protagonisti del Soleterre Festival e del Concerto di Natale 2014.

Incontriamo Daniele e i Folklub nell’ultima data del tour invernale a Mondovì, in provincia di Cuneo, nel camerino del Teatro Baretti.

Quando e come è nata questa tua grande passione per la musica?

«È una domanda abbastanza ricorrente, e a volte forse me lo sono chiesto anch’io. In realtà ho capito che la musica è una di quelle passioni che nasce insieme a te. Più che quando è nata, è giusto chiedersi quando la si è scoperta. E la scopri non appena entri in contatto con lei. Mi viene in mente ad esempio l’autoradio, il sentirla suonare, cercare di seguirla, di imparare le canzoni, soprattutto quelle che per qualche ragione ti facevano venir voglia di risentirle, di cantarle magari insieme al “mangianastri”. E’ qualcosa che parte così, che viene prima del discorso di decidere che della musica vuoi farne un mestiere. E’ una passione, è la “tua” passione, è un qualcosa che ti “muove” la vita. Poi scopri che magari può diventare quello che ti dà anche da vivere e quello per cui vivrai. Nel mio caso, è accaduto, e tutti giorni lotto per mantenere questa opportunità. Opportunità che ogni giorno ringrazio di avere avuto.»

Cosa ti ha dato più soddisfazione: scrivere brani per altri cantanti o per te stesso ed interpretarli davanti al tuo pubblico?

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«Sai, sono due cose che hanno molto in comune, ma allo stesso tempo sono due mestieri diversi tra di loro. La cosa fondamentale è che quando tu scrivi per un altro artista, devi tener conto di quello che è il suo linguaggio, la sua personalità, il suo modo di essere. Devi capire quello che è giusto che lui debba dire e il modo in cui lo dica. Questa cosa è stimolante perché ti fa affrontare mondi che magari per te non avresti preso in considerazione. A un certo punto, però, ho sentito l’esigenza di dire quello che dovevo dire cucito addosso a me. E soprattutto avevo voglia di avere il contatto con la gente, di essere su un palco e suonare dal vivo. Quindi, quando questo progetto è partito, quando ha preso vita e quando ha cominciato a darci le soddisfazioni che continua a darci, soddisfazioni che crescono ancora, è stato un valore aggiunto e una grande ricchezza.»

Nel tuo ultimo album dedichi alla tua famiglia il brano Gli occhi di mia nonna. Quanto c’è delle tue radici nella musica che scrivi?

«È tutto. Nel senso che si parte da lì, volenti o nolenti. Parti da casa tua, parti dalla tua terra. Oggi ci sono molto legato, la canto, anche con il dialetto. La canto raccontando delle storie della mia terra, che poi alla fine si scopre che sono un po’ le storie di tutte le terre. So di gente che abita a migliaia di chilometri che ci si ritrova dentro in pieno, non si capisce perché. Anche se magari non c’è mai stato a Piacenza, qualcuno mi dice «Sono innamorato di quel brano perché lo sento mio». E questa è un po’ la magia dell’unione delle differenze culturali. Si parte da lì, ti dicevo. Eppure per un periodo casa mia mi stava stretta. Piacenza è una piccola città e mi dicevo che tutte le mie occasioni le avrei trovate altrove, nelle grandi metropoli. Ci ho provato, ma lì sentivo la mancanza di casa, come se mi fosse stato strappato qualcosa. E allora avvertivo questa forte esigenza di tornarci e di viverla. Questo mi ha fatto capire e crescere tanto. Gli occhi di mia nonna non parla solo delle radici a livello di terra, ma anche di esperienze a livello umano. I nonni sono universalmente la figura più amata. Ci sono ragazzi che magari hanno contrasti con i propri genitori, ma difficilmente ti dicono che hanno brutti rapporti coi nonni. Eppure non se ne parla mai, e io volevo rompere questa sorta di tabù per raccontare di questa figura, fondamentale per la vita di tanti.»

Nell’album La rivoluzione non sono presenti brani in dialetto piacentino, come invece nei due progetti precedenti, ma con il brano Le donne italiane, cantato con Alessia Tondo, hai omaggiato la pizzica salentina. Perché questa scelta?

«Non ci sono pezzi in dialetto perché non rientra in uno schema, ma è una necessità. Ci sono cose che sento di dover dire in dialetto e le dirò in dialetto anche se qualcuno mi consigliasse diversamente. In questo caso ho deciso di raccontare delle storie in italiano. La pizzica salentina è per evidenziare in maniera forte questa mia voglia di unire le differenze culturali. Quindi c’è una pizzica del Salento del sud, che però nasce in terra d’Emilia, che canto insieme alla voce simbolo, quella di Alessia Tondo, della pizzica salentina. Insomma, questo mescolare di culture che io vedo non come un qualcosa che ci deve dividere, ma come un’opportunità. Nell’album c’è una canzone, Il fuoco ed il tempo che è la ricetta dei nostri “pisarei e fasò”, il piatto piacentino più noto, e molti mi hanno chiesto il perché non l’abbia scritta in dialetto. Non c’è una ragione precisa, forse istintivamente volevo che un pezzettino di casa mia arrivasse in maniera istantanea a chi l’ascoltasse. Sono scelte dettate da sensazioni più che da ragioni numeriche o commerciali, il tutto in maniera naturale e spontanea.»

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Com’è stato cantare al concerto del 1° maggio e aprire i concerti di Ligabue?

«Sono state due esperienze molto diverse. Il 1° maggio è un momento anche a livello simbolico molto rilevante. Quel giorno, sempre a proposito delle differenze culturali che uniscono, ho scelto di fare una performance significativa: siamo saliti sul palco insieme ai TaranProject, il gruppo forse più noto di musica popolare calabrese, e abbiamo cantato mescolando dialetti e suoni. Questo per me è importante in un giorno come il 1° maggio. Per quanto riguarda Ligabue, c’è stata l’incognita: salgo su un palco davanti a decine di migliaia di persone che hanno però in mano un biglietto su cui c’è il nome di un altro cantante. “Come ci accoglieranno?”, mi domandavo. Poi siamo usciti, dopo le prime due note ballavano, saltavano. Insomma, ci hanno veramente accolti a braccia aperte. E allora lì ti si apre un mondo. Tanti fans di Ligabue sono rimasti in contatto con noi, hanno iniziato a venire ai nostri concerti, ci hanno conosciuto. E’ stata una grande occasione, data anche da un artista come Ligabue che non avrebbe bisogno di far aprire i propri concerti da altri. Anzi, a livello tecnico ed organizzativo è una scocciatura. Apprezzo il fatto che abbia comunque deciso di dare questa opportunità, a prescindere che sia stata data a noi, soprattutto oggi come oggi che fare “qualcosa per niente” non usa tanto…»

Qual è stata la tua ultima “piccola rivoluzione” e quale altra hai già in programma?

«Forse anche in questa giornata ci sono state rivoluzioni e ce ne potranno essere ancora. Le rivoluzioni di cui parlo io sono tutte piccole ma comunque importantissime. Tutte le volte che decido che la mia strada è quella e lotto per mantenerla, tutte le volte che decido di non accettare un compromesso, tutte le volte che mi informo di qualcosa, cerco in qualche modo di fare cultura e di scoprire della cultura. Tutte le volte che questo accade penso si faccia una rivoluzione. Quindi in realtà è quotidiana. Interiore ma quotidiana.»

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L’ultima è una domanda assolutamente non seria: ma alla fine, la ragazza bionda con il vestito blu de La birra e la musica, hai poi scoperto come si chiamava?

(Ride, ndr.)«La ragazza bionda col vestito blu c’è. Più che una persona è un’entità, è un personaggio, è una figura che ti può far star bene, ti può divertire oppure far soffrire. C’è dietro un mondo alla ragazza bionda col vestito blu, ma la incontriamo più di una volta, magari c’è anche stasera in teatro…»

Ringraziamo Daniele e scendiamo in platea per goderci il concerto.

 

Nella sua ricca discografia, i testi non sono mai banali e rivelano un animo sensibile e una grande abilità nello scrivere. Ci sono i brani più intimisti che sanno di pura poesia come Brassam fort, La neve e il sole, storie divertenti in dialetto come L’Avucat dal Diavul o Al Pleiboi, pezzi più scanzonati e leggeri che ti fanno ballare come Cenerentola, L’Irlanda o La birra e la musica che i fans si aspettano ad ogni concerto per potersi scatenare. E capita in qualunque location, anche a teatro, che non è esattamente il luogo più consono per ballare…

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I prossimi appuntamenti sono il 7 febbraio al The Grapes Pub a Pontremoli (MS) e il 21 febbraio ad Alessandria al Laboratorio Sociale.

Seguite il suo canale su youtube:

https://www.youtube.com/channel/UCbQIovOuEHsStm5pdOi3fQQ

e la Community su Facebook:

https://www.facebook.com/DanieleRondaOfficial

 

“Il fascino degli intellettuali” ringrazia

Daniele e i Folklub per la disponibilità,

Tiziana dello staff, Tatiana di Parole e Dintorni.

Immagine in copertina: Foto di Alessio Pizzicannella

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Lorena Nasi

Grafica pubblicitaria da 20 anni per un incidente di percorso, illustratrice autodidatta, malata di fotografia, infima microstocker, maniaca compulsiva della scrittura. Sta cercando ancora di capire quale cosa le riesca peggio. Ama la cultura e l'arte in tutte le sue forme e tenta continuamente di contagiare il prossimo con questa follia.

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